Cina: “Se mi suicido, sull’istituto non graverà alcuna responsabilità”
di Giulia Mazzetto
Lo scorso settembre, al momento dell’iscrizione al nuovo anno accademico, cinquemila matricole del City College of Dongguan University of Technology, nella provincia meridionale del Guangdong, in Cina, si sono trovate a dover firmare un contratto a dir poco sconcertante, con un contenuto riassumibile in una frase: “Se mi suicido, sull’istituto non graverà alcuna responsabilità”.
L’ateneo cinese ha distribuito ai nuovi iscritti un documento denominato “Accordo di gestione e autodisciplina dello studente”, riguardante la regolamentazione dell’atteggiamento da tenersi nei dormitori, accordo che scarica di fatto sui ragazzi ogni responsabilità per eventuali atti di suicidio consumati o tentati e per possibili gesti autolesionistici posti in essere durante il periodo di soggiorno nel campus.
Fonti locali ricollegano la clamorosa iniziativa ad un caso avvenuto nello scorso semestre all’interno della stessa facoltà di Ingegneria di Dongguan, quando un ragazzo accoltellò una compagna nei dormitori dopo essere stato da lei rifiutato.
Versione differente è stata fornita dalle autorità universitarie, secondo le quali il contratto fatto sottoscrivere agli studenti sarebbe semplicemente un “codice di condotta del dormitorio” per far sì che gli studenti rispettino delle regole comuni. La realtà, però, sembra ancora diversa: l’accusa è che il sistema scolastico cinese sia troppo stressante e provochi cedimenti psicologici molto pericolosi tra gli alunni.
In particolare il mese di giugno, periodo in cui si svolgono i test d’ammissione alle facoltà universitarie, è definito il “mese nero” degli studenti cinesi, con una percentuale di suicidi assai più elevata della media. Ancora prima che gli studenti diventino matricole le università li sottopongono a test d’ingresso durissimi della durata di due giorni, accompagnati da una rigida preselezione che tiene in considerazione i voti delle scuole superiori. Una volta entrati a far parte del mondo universitario le cose non migliorano, anzi. Alcuni studenti cinesi, intervistati dal magazine francese “Les in Rocks” , rivelano di passare molte ore nelle classi universitarie ogni giorno, di avere molti compiti da concludere a casa, dovendo lavorare sostanzialmente sempre, senza mai una pausa, e ammettono infine che ogni anno qualche loro compagno si suicida travolto dalla fatica, avendo praticamente perso il contatto con la realtà.
Bassissime sono le percentuali di coloro che lasciano l’università senza concludere gli studi: è sempre stata insita nella cultura cinese la convinzione che lo studio fosse una strada sicura per il successo e per questo risulta praticamente impossibile riconoscere una sconfitta, soprattutto di fronte alle forti aspettative delle famiglie. Attualmente, anche a causa della crescente scolarizzazione, la connessione studio-lavoro starebbe cambiando: quest’anno solo il 35% dei 7 milioni di neolaureati ha trovato un’occupazione e questo ha provocato un notevole stress aggiuntivo negli universitari.
Il fenomeno era noto già da tempo, tanto che il Ministero della Salute e dell’Educazione ha più volte chiesto gli atenei di prendersi cura anche del benessere mentale oltre che del rendimento accademico dei propri iscritti: la Central South University a Changsha, ad esempio, si è dotata delle “stress room”, aule create ad hoc con pareti di gomma e musica rilassante, oltre che di psicologi addetti a seguire costantemente gli studenti a disagio. Alla Harbin University of Commerce, invece, gli allievi si possono sfogare urlando a piacimento in apposite stanze insonorizzate o prendendo a pugni dei sacchi di sabbia per scaricare la tensione accumulata.
Il Centro di prevenzione e controllo cinese riporta che la Cina ha il più alto tasso di suicidi al mondo, con 22 persone su centomila che si tolgono la vita, e questo sta diventando la maggior causa di morte nella popolazione tra i 15 e i 34 anni. Il professor Xu Kaiwen, professore associato di psicologia clinica all’Università di Peking, ritiene che vi sia una chiara connessione col sistema educativo del paese, tesi avvalorata da numerose statistiche secondo le quali le percentuali di chi ammette di aver almeno una volta pensato seriamente al suicidio risultano particolarmente elevate negli studenti delle scuole superiori, soprattutto femmine. Molti esperti cinesi concordano con questa conclusione, ritenendo necessarie piattaforme specializzate nelle quali i ragazzi possano parlare dei loro problemi, essere capiti e aiutati, per non arrivare a compiere gesti estremi. Non tutti gli istituti propendono per questa soluzione preferendo non interessarsene e scaricando sugli studenti stessi ogni responsabilità, come dimostra l’ateneo di Dongguan.
La Cina non è nuova a formule di questo tipo e i contratti anti-suicidio non rappresentano una novità universitaria: celebre è il caso della ditta Foxconn, che tre anni fa aveva fatto siglare ai suoi dipendenti un impegno a non togliersi la vita, dopo i numerosi casi di morti sospette verificatesi nelle strutture dell’azienda, diffondendo un documento che aveva fatto molto scalpore e che era stato presto ritirato e corredato da scuse formali.
Questa volta si tratta di un contratto singolare nel suo genere, come commenta Xiong Bingqi, vice direttore del 21st Century Education Research Institute, perché aggravato dalla circostanza dell’essere rivolto a ragazzi giovani, in pieno periodo di sviluppo culturale ed umano, che dovrebbero essere supportati e aiutati proprio dagli ambienti di formazione, e che invece, per la prima volta, subiscono lo stesso discutibile trattamento di molti lavoratori del colosso cinese.