Strage di Via D’Amelio: 22 anni dalla domenica del 19 luglio 1992
di Giacomo Pellini
Sono passati oramai 22 anni dalla domenica del 19 luglio 1992, giornata in cui persero la vita, in seguito ad un attentato di stampo terroristico- mafioso, Paolo Borsellino – all’epoca Procuratore aggiunto della Repubblica di Palermo – e la sua scorta, composta dagli agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Solamente l’autista Antonino Vullo che in quel momento stava facendo retromarcia per parcheggiare, sopravvisse alla carneficina.
Quel giorno Borsellino si stava recando, dopo aver pranzato assieme a tutta la famiglia nella sua casa a Villagrazia di Carini, a visitare la madre in via Mariano D’Amelio, a Palermo. Mentre il giudice si stava recando ad azionare il citofono dell’abitazione della madre, una fiat 126 parcheggiata vicino all’abitazione, improvvisamente esplose, uccidendo sul colpo Borsellino e gli agenti che lo scortavano. Più tardi verrà confermato che l’auto, che era stata rubata, era imbottita con 100 grammi di tritolo. Solo due mesi prima, il 22 maggio del 1992, morì, nei pressi di Capaci, sempre per mano mafiosa, il giudice Giovanni Falcone.
Dopo 22 anni, tra accuse e smentite, e ben 4 processi (l’ultimo aperto nel 2008), il nostro Paese non conosce ancora la verità su quella lontana domenica di luglio. Sono ancora tanti gli interrogativi che permangono su quella strage: è innanzitutto un mistero come l’agenda rossa, che il giudice usava portare sempre con sé per annotare i propri pensieri e opinioni, sia svanita senza lasciare alcuna traccia. L’agenda sarebbe stata, secondo la famiglia, contenuta all’interno della borsa del magistrato, borsa che sarebbe poi stata requisita, subito dopo l’esplosione, dal capitano dei Carabinieri Arcangioli. Dapprima accusato di aver sottratto l’agenda, Arcangioli verrà in un secondo momento assolto da parte della Procura di Caltanissetta.
La figura di Borsellino e la sua morte devono essere contestualizzate all’interno della sanguinosa stagione delle stragi di mafia del 1992-1993 e della cosiddetta Trattativa tra Stato e Mafia. Cesare Spatuzza, ora collaboratore di giustizia, dopo essersi autoaccusato nel 2008 di aver rubato la famosa Fiat 126, dichiarò che Borsellino fu ucciso in quanto si sarebbe opposto alla trattativa Stato-Mafia. Durante tale trattativa, mai provata del tutto, alcuni funzionari dello Stato, tra i quali Calogero Mannino e Marcello dell’Utri, avrebbero negoziato con alcuni esponenti di Cosa Nostra, quali Totò Rina e Bernardo Provenzano, la cessazione della violenza e la fine della stagione di stragi, in cambio di un’attenuazione del 41 bis – articolo del codice penale che prevede il carcere duro per alcuni reati, tra i quali quelli relativi alla criminalità organizzata – e altre richieste. Tali richieste sarebbero contenute nel famoso “papello”, menzionato per la prima volta nel 2009 dal figlio dell’ex sindaco Dc di Palermo Vito Ciancimino, Massimo Ciancimino. Dopo le dichiarazioni di Spatuzza e Ciancimino si aprì un maxi-processo che vide come imputati tra gli altri Riina, Provenzano, Mario Mori, generale dei ROS, il colonello Obrinu dei Carabinieri, l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri e l’ex ministro della DC Calogero Mannino.
Tuttavia il Papello di Ciancimino non fu considerato attendibile dal Tribunale, e dopo l’assoluzione di Obrinu e Mori dall’imputazione di favoreggiamento, è stato aperto un fascicolo sullo stesso Ciancimino con l’accusa di calunnia.
Imputato di falsa testimonianza è stato anche l’allora Ministro degli Interni Nicola Mancino, che, secondo i Pm, sapeva della trattativa e avrebbe mentito sui rapporti tra lo Stato e la mafia. A Mancino era già stata indirizzata una lettera aperta pubblicata dal fratello del giudice Borsellino, Salvatore, e intitolata 19 luglio 1992: una strage di stato. In tale lettera Salvatore accusa Mancino di essere stato a conoscenza della causa della morte del fratello nonché di averlo incontrato pochi giorni prima della strage di Via D’Amelio. L’ex ministro rinviò al mittente tali accuse, smentendole.
Mancino chiamò più volte il Quirinale, e parlò anche con il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Le telefonate tra i due sono state più volte intercettate. Nonostante la gravità della situazione, il Presidente della Repubblica ha trascinato la Procura di Palermo di fronte alla Corte Costituzionale, sollevando un conflitto di attribuzione di poteri. Alla fine però la Corte Costituzionale dichiarò illegittime tali intercettazioni, decretandone la distruzione.