Nuove proteste in Tibet. Critiche da Amnesty International
di Alberto Bellotto
(@albertobellotto)
Nuove morti e nuovi feriti nell’eterno confronto tra Cina e Tibet. Nel corso della scorsa settimana la tensione tra autorità cinesi e comunità tibetana è tornata ad infiammarsi nella contea di Biru, parte della prefettura di Nagchu. Gli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine hanno causato la morte di 4 persone e il ferimento di altre 50. Le ondate di protesta, intensificatesi tra domenica e martedì, avevano come motivazione principale la richiesta di liberazione di un leader locale e il rifiuto di esporre la bandiera cinese in occasione delle celebrazioni per la nascita della repubblica popolare cinese.
L’ondata di proteste che ha colpito la regione ha visto tre momenti salienti. Il primo risale al 27 settembre con l’arrivo massiccio di funzionari cinesi e il conseguente obbligo di issare in tutte le case la bandiera cinese per celebrare la festa del 1 ottobre. Nell’occasione circa 800 persone hanno manifestato contro l’imposizione e nel corso degli scontri uno dei leader della protesta, Dorje Draktsel, è stato arrestato.
Dopo un periodo di relativa calma le proteste sono riprese domenica scorsa, quando è iniziata una nuova manifestazione per chiedere la liberazione di Draktsel. Nell’occasione le forze di sicurezza cinesi hanno lanciato ingenti quantità di gas lacrimogeno ed esploso diversi colpi di arma da fuoco ferendo una sessantina di persone. Nonostante la tregua di lunedì, martedì le proteste sono riesplose violentemente. Il bilancio di questa terza ondata è stato però più grave. La polizia spara e rimangono a terra quattro persone, tre del villaggio di Sengthang e una del villaggio di Tinring, mentre altre 50 vengono ferite. Una volta contenuta la manifestazione le autorità cinesi hanno disposto l’arresto di un centinaio di persone, il sequestro di cellulari e macchine fotografiche e il taglio della rete internet e telefonica. Per stroncare le proteste sono state inasprite le sanzioni come l’espulsione dei figli dalle scuole, il rifiuto delle cure mediche e il licenziamento dal lavoro.
Le reazioni delle ong non si sono fatte attendere, prima fra tutte Amnesty International. Corinna-Barbara Francis, responsabile per la Cina di Amnesty, ha attaccato duramente le autorità cinesi: “È oltraggioso che la polizia esploda colpi d’arma da fuoco ad una protesta pacifica. Questo incidente è l’ennesima dimostrazione – ha continuato la Francis – che le autorità politiche non hanno fatto niente per limitare l’uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza”.
Il Tibetan Centre for Human Rights and Democracy, ha fatto sapere che nella capitale, Lhasa, le forze di polizia hanno iniziato a monitorare e pedinare tutti i tibetani di Nagchu che si recano in città.
Le nuove tensioni tra tibetani e autorità cinesi arrivano negli stessi giorni in cui la Corte Nazionale Spagnola ha accolto il ricorso di alcuni esuli tibetani contro l’ex presidente della repubblica popolare cinese Hu Jintao, accusato di genocidi. L’agenzia di stampa spagnola Efe, ha fatto sapere che l’Audiencia National ha ammesso la richiesta perché uno degli esuli ha anche la cittadinanza spagnola. Nello specifico l’accusa riguarda una serie di repressioni avviate verso la fine degli anni ’80 quando Hu Jintao era a capo del Partito Comunista Cinese in Tibet.
La questione tibetana non rappresenta il solo focolaio di protesta per la Cina.
Ad inizio ottobre la polizia della repubblica popolare aveva arrestato circa 140 persone nella regione nord occidentale dello Xinjiang con l’accusa di estremismo religioso online, per aver inneggiato alla jihad e glorificato atti di terrorismo.
Lo scorso luglio, inoltre, gli abitanti di Hong Kong avevano protestato con forza per chiedere elezioni democratiche a suffragio universale che garantissero una maggiore autonomia nei confronti della Cina.
Di seguito alcune immagini degli scontri a Biru