Pena di morte: evoluzione positiva verso l’abolizione, ma aumentano le condanne
di Giulia Mazzetto
Nessuno tocchi Caino, l’organizzazione non governativa affiliata al Partito Radicale, ha presentato pochi giorni fa il suo annuale rapporto sulla pena di morte nel mondo (qui la petizione rivolta all’Onu per la moratoria delle esecuzioni). Secondo il report, nel corso del 2013, sono state uccise complessivamente tramite condanne capitali ben 4.106 persone, rispetto alle 3.967 stimate nel 2012. I dati raccolti dall’associazione italiana esprimono una situazione paradossale: gli stati che adottano la pena di morte diminuiscono, sulla scia della battaglia per l’abolizione, ma il numero complessivo delle condanne si dimostra in costante aumento. La causa principale è prevalentemente determinata da specifiche situazioni, in primis quelle verificatesi in Iran e Iraq: nel 2013 infatti, in Iran le condanne a morte hanno raggiunto il livello più alto degli ultimi 15 anni, mentre in Iraq si è registrata un’impennata del numero delle esecuzioni dal 2003, anno cruciale della caduta di Saddam Hussein. In più, la Cina si conferma il paese leader di questa triste classifica con più di 3.000 persone uccise nell’arco dello scorso anno.
Entrando più nel dettaglio, il rapporto conferma i dati rilasciati da Amnesty Intenational nell’ultima rilevazione del marzo scorso, mostrando che, in Europa, l’unica Nazione dove la pena di morte rimane in vigore attualmente è la Bielorussia; l’Asia è invece il continente in cui è avvenuto il maggior numero di esecuzioni capitali, principalmente a causa delle situazioni dell’area sud occidentale. Nel continente americano, invece, la pena di morte è applicata concretamente soltanto al nord, negli Stati Uniti d’America, che si trovano tra l’altro al quinto posto globale in quanto a numero di esecuzioni, con 39 persone uccise (dopo Cina, Iran, Iraq e Arabia Saudita). Infine, in Africa le condanne a morte documentate sono state 57, attribuibili a cinque differenti Stati: Somalia, Sudan, Sud Sudan, Nigeria e Botswana.
Nei Paesi che ancora mantengono in vigore l’estrema condanna, rimane tuttavia preoccupante il velo di segretezza in relazione ai metodi che vengono utilizzati per le esecuzioni, come ha sottolineato a gran voce Sergio D’Elia, segretario dell’organizzazione italiana: «In quasi tutti i Paesi considerati democratici, il sistema della pena capitale, per molti aspetti, si è rivelato essere sempre più coperto da un velo di segretezza come, ad esempio, negli Stati Uniti dove, nel pur decrescente numero di Stati della federazione che mantengono la pena capitale, si sta facendo di tutto per occultare i modi attraverso i quali viene praticata, per coprire il tipo di sostanze utilizzate nelle esecuzioni e i fornitori di tali sostanze, impedendo di conseguenza qualsiasi azione di sensibilizzazione ad opera di organizzazioni o dell’opinione pubblica».
L’evoluzione positiva verso l’abolizione della pena di morte in atto nel mondo da oltre 15 anni, può ritenersi comunque confermata sia nel 2013 sia nei primi sei mesi del 2014 con l’aggiunta di altri 12 Stati all’elenco: ad oggi sono quindi 161 i Paesi che hanno deciso di conformarsi al supremo principio di umanità. Tra questi, 100 hanno radicalmente eliminato le esecuzioni capitali dal proprio ordinamento penale, altri 7, ossia Brasile, Cile, El Salvador, Figi, Israele, Kazakistan e Perù, le hanno abolite soltanto per i crimini ordinari, mentre in ulteriori 48 Stati, a livello legislativo, la pena di morte resta ancora formalmente esistente, ma di fatto è considerata abolita, poiché non vengono praticate esecuzioni capitali da almeno dieci anni.
Un segnale positivo a riguardo sembra provenire, proprio negli stessi giorni della divulgazione del rapporto, da uno degli Stati americani tradizionalmente favorevoli alla pena capitale: la California. Un giudice federale, Cormac Carney, esprimendosi su una petizione presentata da Ernest Dewayne Jones, condannato nel 1992 per aver stuprato e ucciso una donna, ha infatti sentenziato l’incostituzionalità della pena di morte, giudicando il sistema californiano “disfunzionale e arbitrario” nel momento in cui obbliga i detenuti ad attendere tempi anche molto lunghi prima dell’effettiva esecuzione della condanna. Il giudice ha così stabilito che tale sistema si pone apertamente in contrasto con il divieto costituzionale sulle punizioni crudeli e disumane, previsto dal fondamentale ottavo emendamento della Costituzione americana.
In realtà, nessuna condanna è stata eseguita in California dal 2006, quando un altro giudice federale sentenziò che lo Stato doveva rivedere le procedure inerenti all’iniezione letale, ma nel novembre 2012, un referendum che prevedeva la conversione di tutte le condanne a morte in ergastoli fu di poco bocciato dai cittadini californiani. La sentenza è stata perciò definita davvero storica da Gil Garcetti, ex procuratore distrettuale di Los Angeles, che da sempre si batte per l’abolizione, in quanto si tratta della prima volta che una corte federale definisce la pena di morte di uno Stato “incostituzionale”.