Pubblicato il: Sab, Ago 3rd, 2013

Don Carlo – Sindrome di Edipo alla corte di Spagna

di Martino Pinali

Background storico

Il rifacimento “francese” del Macbeth stuzzicò ancora il palato parigino, ormai affezionato a Verdi, e, nel luglio del 1865 Émile Perrin, direttore dell’Opéra, manda a Sant’Agata Léon Escudier, editore e amico del compositore, a proporgli un paio di soggetti per un’opera da rappresentarsi per l’Esposizione Universale. Verdi, tra i varii soggetti, scarta Shakespeare (King Lear e Anthony and Cleopatra) e sceglie invece Schiller con il suo Don Carlos, drammone liberamente ispirato sul conflittuale rapporto tra Filippo II e suo figlio, scomparso in giovane età, forse reo di aver messo gli occhi sulla giovane terza moglie del Re.

Il libretto della versione in quattro atti, edito da Ricordi 

Giuseppe e Giuseppina partono così alla volta di Parigi, trascorrendo quasi quattro mesi tra l’oziosa composizione della nuova opera (l’accoppiata di librettisti, Méry-Du Locle, si fa attendere), a mondanità della creme de la creme parigina (frequenta il salotto di Rossini, la cui consorte, Olympe Pélissier, starà antipatica alla Strepponi), l’ascolto dei lavori dei colleghi (L’Africaine di Meyerbeer, e, soprattutto, la revisione francese del Tannhaüser di Wagner, che gli farà esclamare “è matto!”).

Ma, dopo un momentaneo ritorno a Sant’Agata nella primavera del ’66, le vicende politiche nazionali (la Terza Guerra d’Indipendenza) mettono a dura prova i rapporti tra l’Italia, la Francia e l’Austria: la situazione è così delicata che Verdi tenta addirittura di scindere il contratto, ma Escudier lo invita a non farlo e a rispettarlo. Partendo da Genova, i coniugi Verdi soggiornano d’estate nei Pirenei ed arrivano a Parigi in autunno, proprio mentre il Veneto passa sotto la protezione di Napoleone III, e, successivamente, verrà annesso all’Italia.

Ultimata la composizione dell’opera, Verdi non è tuttavia soddisfatto del suo lavoro, che, in una continua e logorante smania di modifiche, taglia pezzi qua e là, quasi anticipando le varie sfacettature e le numerose versioni che circoleranno, in seguito, del suo Don Carlos. L’11 marzo 1867 (poco dopo la morte del padre del compositore) l’opera vede il suo debutto: lo spettacolo piace, nonostante un’orchestra non all’altezza e una banda musicale stonata. Dopo Parigi, l’opera è attesa in Italia, dove ha la sua prima rappresentazione ad ottobre a Bologna. Ma il Don Carlo(s) subirà un calvario di modifiche, revisioni e dibattiti ancora accesi sulle varie versioni esistenti:

  • la versione originaria del 1867, in francese (che consta, da grand-opéra quale è, cinque atti e un balletto);

  • la versione del 1884 per la Scala, in italiano, per la traduzione di Achille de Lauzières (che elimina il primo atto, il balletto, e varii brani musicali, tra cui un duetto tra Carlo e Filippo, dopo la morte di Rodrigo, che diventerà il motivo del “Lacrymosa” della Messa di Requiem);

  • la versione del 1886 per il Teatro Municipale di Modena, sempre in italiano (che ripristina il primo atto francese, ma tiene leggermente invariati i tagli della versione della Scala, tra cui l’eliminazione del balletto).

L’opera

Spagna, intorno al 1560. I rapporti tra Filippo II (basso), monarca assoluto, e Don Carlo (tenore), suo figlio, sono a dir poco conflittuali: l’Infante è propenso a concedere alla provincia delle Fiandre più autonomie e libertà, che invece il padre continua a negare e, anzi, opprime quel popolo con continue guerre. A rovinare ancora di più il loro rapporto è la decisione di Filippo di sposare Elisabetta di Valois (soprano), figlia del Re di Francia Enrico II, che un giorno era stata invece destinata in sposa a Carlo. Elisabetta, che si era teneramente innamorata di quello che ora è il suo figliastro, cerca di scordare il suo primo amore per amore della pace: il matrimonio, infatti, ha sancito una tregua tra le due nazioni, sempre in conflitto.

Don Carlos, principe delle Asturie, ritratto da Alonso Sanchez Coello

La torbida vicenda prosegue tra le manovre politiche di Carlo, aiutate dall’amico Rodrigo (baritono), Marchese di Posa e amico intimo del Re (che cerca, invano di riappacificare padre e figlio) e un “presunto” triangolo amoroso tra l’Infante, Elisabetta e la Principessa di Eboli (mezzosoprano): costei, favorita del Re e innamorata di Carlo ma da lui respinta, dopo aver scoperto il passato amore tra l’amato e la Regina, rivela tutto a Filippo.

Ma, sopra i piani di ciascuno, sta l’ombra terribile del Grande Inquisitore (basso), il quale, per salvaguardare il potere della Chiesa in Spagna, chiede a Filippo la morte di Rodrigo (in quanto difensore delle Fiandre, noto paese protestante) e la consegna di Carlo, per processarlo. L’Infante, in carcere per aver oltraggiato il re in pubblico, viene raggiunto da Rodrigo che lo invita a fuggire dalla corte per un ultimo colloquio con Elisabetta, ma il Marchese viene colpito a tradimento da un colpo di archibugio, e muore tra le braccia di Carlo.

L’ultimo colloquio di Carlo ed Elisabetta (incontratisi nel Chiostro di San Giusto, dove era stato sepolto Carlo V) viene rovinato da Filippo, il quale fa per consegnare il figlio e la moglie infedele all’Inquisitore per processarli: ma, in quel momento, la tomba del vecchio imperatore si apre, e appare, sotto le sembianze di un frate, Carlo V stesso, il quale trascina con sé il nipote nel sepolcro.

Musica e maschere

Quando il Don Carlo (nella sua versione in 4 atti) venne rappresentato il 7 dicembre 2008, in una recensione l’opera venne definità “la più nera di Verdi”. Una definizione forte, e abbastanza condivisibile. Più “nera” e pessimista è invece La forza del destino, ma il Don Carlo, se non nero, “riluce di tetro” (Ulrica dixit, nel Ballo): è un’opera fosca, torbida, piena di ombre, dove i protagonisti affogano i loro sentimenti e macchinano piani ai danni degli altri. È nell’ombra che si acquattano i due ministri del Sant’Uffizio che feriscono mortalmente Rodrigo; è tra l’ombra del cortile di San Giusto che Carlo lamenta il suo amore per la matrigna; è sotto le fronde degli “immensi abeti” che la Principessa d’Eboli canta la celebre “Canzone del velo” pensando a Carlo; è nell’ombra che appare il fantasma di Carlo V, per portare il nipote con sé. Solo un deus ex machina, un’entità soprannaturale, può “sanare” i conflitti insanabili che vi sono tra i protagonisti dell’opera.

Rosalind Plowright (Elisabetta) e Samuel Ramey (Filippo) a Ginevra, nel 1988 

Mai, come nella altre opere, i duetti vengono così sacrificati in nome della politica, della religione e dell’addio: non che in quest’opera manchino i duetti amorosi, ma i tre duetti tra Carlo ed Elisabetta (due, nella versione in quattro atti) sono velati dalle cupe minacce esterne (il suono del cannone durante il primo atto, nel corso del loro primo incontro, che annuncia le nozze, ma non tra di loro: tra Elisabetta e Filippo) e dalla malinconia di un rapporto ormai insanabile (lo struggente addio “Ma lassù ci rivedremo”, e, ancora prima, il terribile “Io vengo a domandar la grazia”). Gli altri duetti sono di natura politica (“O signor, di Fiandra arrivo”: Rodrigo cerca di convincere Filippo ad essere meno severo con le Fiandre; “Nell’Ispano suol” canta il Grande Inquisitore, prima di chiedere la testa del Marchese di Posa) o di “finta” riconciliazione: la Principessa d’Eboli confessa ad Elisabetta di aver rivelato lei stessa al Re la sua relazione con Carlo, e padre e figlio si ritrovano assieme a piangere sul cadavere di Rodrigo (duetti presenti solo nella versione originale dell’opera: nelle due versioni italiane non sono presenti).

Tre buoni motivi per cui vale la pena ascoltarla

  1. per la scena dell’auto da fé (“Spuntato ecco il dì d’esultanza”), diretta ascendente del Trionfo di Aida, che racchiude in sé la gioia di un popolo, l’austerità religiosa, e i contrasti politico-amorosi (quando Carlo, in preda al furore, minaccia di colpire il padre di fronte a tutti, e viene disarmato dall’amico Rodrigo);

  2. per Filippo, dolentissimo padre seppellito sotto l’irremovibile e severa patina del Re di Spagna; la sua aria “Ella giammai m’amò” è il più accorato grido di dolore mai udito in Verdi, ed è stata resa celebre da famosi bassi quali Boris Christoff, Nicolai Ghiaurov, Samuel Ramey;

  3. per Elisabetta, giovinetta che ha dovuto sacrificare sull’altare della pace il suo amore, la quale, pur macchiata dalla colpa di questa relazione adulterina, non viene mai meno alla regalità di cui è stata investita; interprete di riferimento del ruolo di Elisabetta, Montserrat Caballé.

Una scena del Don Carlo andato in scena nella stagione 2008-2009 alla Scala 

Dove e quando ascoltarla in Italia

A ottobre, alla Scala viene rappresentata la versione “milanese” dell’opera, in quattro atti e senza balletto: l’allestimento, a cura di Stéphane Braunschweig, ha inaugurato la stagione 2008-2009. Il cast prevede René Pape (Filippo II), Fabio Sartori (Don Carlo), Massimo Cavalletti (Rodrigo), Martina Serafin (Elisabetta), Ekaterina Gubanova (Principessa d’Eboli) e Stefan Kocan (Grand’Inquisitore), diretti da Fabio Luisi.