Pubblicato il: Lun, Nov 3rd, 2014

Festival Verdi 2014 – La forza del destino

di Martino Pinali

La “potenza del fato” a Parma, dal 1873 ad oggi

Undici anni dopo la sua prima rappresentazione a San Pietroburgo (e quattro dopo la sua “revisione” alla Scala), La forza del destino debutta nella città che tuttora ospita il Festival Verdi, Parma, nella splendida cornice del Teatro Regio.

L’opera “jettatrice” di Verdi (che, ancora oggi, qualche superstizioso non osa pronunciare) è riapparsa a Parma per ben quattordici stagioni, divenute quindici con le repliche di quest’anno. Protagonisti delle passate stagioni, gli Alvaro di Francesco Merli, Beniamino Gigli, Carlo Bergonzi (alla cui memoria è dedicata la produzione di quest’anno), Franco Corelli, nonché le Leonora di Gina Cigna, Maria Caniglia, Antonietta Stella, e altri artisti del calibro di Renato Bruson, Adriana Lazzarini, Ebe Stignani, Antonino Votto.

Torna a Parma, a tre anni dal debutto, l’allestimento firmato dal regista trentino Stefano Poda, allora (e anche oggi) oggetto di diverse perplessità da parte del loggione.

La forza del destino secondo Poda: la scena del Convento (da www.teatroregioparma.it)

La forza del destino secondo Poda: la scena del Convento 

L’allestimento

Poda (che firma anche le coreografie, le luci e i costumi) elimina ogni caratterizzazione di ambientazione fisica o temporale: la vicenda viene trasposta dalla Spagna del XVIII secolo in uno spazio grigio, metallico e freddo, una specie di bolgia infernale, brulicante di figure scure e inquietanti, che spostano le pareti rocciose formando ora la casa dei Vargas, ora la taverna, ora il Convento della Vergine degli Angeli.

L’idea registica, probabilmente, è quella di sottolineare l’universalità della vicenda, ma tutto ciò a discapito della trama, vivace e ricca di colpi di scena: la taverna dell’Alcade, in cui Carlo incontra Preziosilla (e dove Leonora cerca di fuggire dal fratello), diventa un ritrovo di coristi in tuba e tabarro, dai movimenti lenti e sepolcrali, che cozzano con la musica, brillante e spiritosa. Stessa desolante caratterizzazione per la scena dell’accampamento, allegro come un funerale, per e l’aria di Melitone: perché costui, privato della pentola di minestra che deve somministrare ai mendicanti, dovrebbe prendersela con dei mendicanti, e perché questi “accattoni”, vestiti meglio del frate, dovrebbero chiedergli la carità?

Non si registrano momenti migliori nemmeno durante le scene più drammatiche (eccezion fatta per la bella scena del Convento). Il resto diventa un guazzabuglio di movimenti statici, noiosi e privi di senso:  se Alvaro prima del “Oh tu che in seno agli angeli” gioca con una “palla da demolizione” che dondola per la scena durante la sua aria, Leonora, con uno spintone, scaccia sdegnata il Padre Guardiano di fronte alla sua proposta di richiudersi in un convento. Il culmine del ridicolo si raggiunge quando, appena Leonora muore, cade dall’alto una spada, la quale conficcandosi all’interno di una roccia su cui cadono petali, diviene l’oggetto delle adorazioni del Padre Guardiano e di Alvaro, che si dimenticano della povera moribonda(più di uno ha ironizzato: ma era il finale della Forza del destino o de La spada nella roccia?). Per il resto dello spettacolo, gli artisti sembrano essere lasciati allo sbando più totale, limitandosi ad andare avanti e indietro talvolta, senza un senso, senza passione.

Un'altra immagine dell'allestimento di Poda: l'Osteria dell'Alcade (da www.teatroregioparma.it)

Un’altra immagine dell’allestimento di Poda: l’Osteria dell’Alcade 

Enigmatiche, ed a tratti ridicole, le coreografie, la cui responsabilità non ricade sui bravi ballerini, impegnati costantemente in controscene sul cui significato ci stiamo ancora interrogando. Anonimi i costumi, con particolari punte di ilarità per l’inguardabile cappotto rosso sfoggiato da Preziosilla, per le pellicce che fungono da sai dei frati e per la vestaglia di Leonora nella scena finale: più che una penitente, sembrava appena uscita dalla sauna di un centro benessere. Molto suggestive invece le lui, algide e adatte all’atmosfera funebre.

Il cast

Note positive vengono dalla compagine vocale, ma rimane l’amaro in bocca per aver trovato un cast molto valido impegnato in una regia poco entusiasmante.

Trionfatore della serata, il tenore Roberto Aronica, autore di una prova di altissimo rilievo: il temibile ruolo di Alvaro è stato affrontato dal cantante con sicurezza e padronanza dei mezzi. Gli acuti sono squillanti e precisi, il fraseggio pulito, il suo personaggio non scade mai nella grossolanità o in arrogante spavalderia.

Annunciata indisposta all’inizio dello spettacolo, ma disposta ad affrontarlo, Virginia Tola, alla quale va il merito di aver onorato l’impegno, conclude la recita visibilmente affaticata, riuscendo fortunatamente a non fare disastri: dopo un inizio in sordina nel Primo Atto, si riprende meglio nel Secondo (ben riuscita la preghiera “Madre, pietosa Vergine” e il Duettone con il Padre Guardiano) e nel Quarto. La Melodia “Pace, mio Dio!” mancava però del giusto pathos, della giusta sofferenza, e in ciò non hanno aiutato certo le indicazioni registiche (Leonora si sarà strusciata sulla croce sbilenca circa tre volte).

Virginia Tola nei panni di Leonora (da gbopera.it)

Virginia Tola nei panni di Leonora 

Anche il Carlo di Luca Salsi parte in sordina (non eccellente la “Ballata di Pereda” nella scena dell’osteria), ma si riscatta nella buona prova offerta nel Terzo Atto, specie nell’”Urna fatale”, e nei duetti con Aronica, nei quali il baritono ha tirato fuori il meglio di sé.

Sugli scudi l’austero e granitico Padre Guardiano di Michele Pertusi, preciso e partecipe in tutti i suoi interventi; validissimo anche il Melitone di Roberto De Candia, impegnato in un ruolo che vuole essere un omaggio al “buffo comico” rossiniano, ma penalizzato da una regia che lo trasforma in un personaggio anonimo e per nulla divertente. Medesimo discorso per la Preziosilla di Chiara Amarù, dagli acuti disinvolti e sicuri, autrice di una prova maiuscola: il mezzosoprano è stato trasformato in una specie di maitresse inquietante, ben lungi dall’istrionico personaggio che è nel libretto di Piave.

Di buon livello tutti quanti i comprimari: il solido Marchese di Calatrava di Simon Lim, l’inquietante Curra di Raffaella Lupinacci (trasformata da cameriera in una specie di Signora Danvers de Rebecca – La prima moglie), lo squillante e antipatico Trabuco di Andrea Giovannini, il preciso Chirurgo di Gianluca Monti e il buon Alcade di Daniele Cusari.

Buona la direzione di Jader Bignamini, alla guida della Filarmonica Arturo Toscanini, che si fa valere soprattutto nei momenti più “sinfonici” (la Sinfonia e l’Introduzione alla scena di Alvaro dell’Atto Terzo), pur peccando talvolta di lentezza nei momenti più briosi (la scena dell’osteria). Ottima la prestazione del Coro del Regio, preparato dal Maestro Salvo Sgrò.

Alla fine della serata, un cordiale successo ha arriso alla compagnia di canto, con particolare calore nei confronti di Aronica, Pertusi e Salsi.

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