Acireale, vietate le esequie ai condannati definitivi per mafia
di Giulia Mazzetto

Il Vescovo di Acireale Monsignor Antonino Raspanti
Niente funerali in chiesa ad Acireale, in provincia di Catania, per chi è stato condannato per reati di criminalità organizzata e non ha mostrato pentimento prima di morire. Lo ha stabilito il Vescovo della diocesi, Monsignor Antonino Raspanti, che ha promulgato un «decreto di privazione delle esequie ecclesiastiche per chi è stato condannato per reati di mafia in via definitiva». Il decreto è stato illustrato dallo stesso prelato nella chiesa di San Rocco, ad Acireale, durante un incontro dal titolo «Conversazioni sulla legalità», al quale hanno preso parte il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri e il Procuratore della Repubblica a Catania Giovanni Salvi. Un gesto senza precedenti perché normativizza il divieto delle esequie per i mafiosi, divieto che in passato è stato rivolto solo sporadicamente da alcuni coraggiosi preti in Sicilia a singoli personaggi legati a Cosa Nostra nella contingenza di specifiche situazioni.
“Il provvedimento non deriva da un clima di emergenza legato alla mia diocesi, ma è una decisione maturata negli anni” – precisa il Vescovo nato e cresciuto tra Trapani e Palermo, osservando direttamente l’incidenza della mafia nel territorio e vivendo la stagione degli omicidi e delle stragi. Naturale punto di riferimento di don Raspanti è stato sicuramente Don Pino Puglisi, prete di strada ucciso dalla mafia a Palermo nel 1993 per il suo impegno contro le cosche e beatificato lo scorso 25 maggio, con il quale il Vescovo di Acireale aveva un personale rapporto di amicizia e una forte condivisione di ideali.
“Non spetta a me dire se gli altri vescovi debbano o meno estendere il decreto. Tuttavia posso dire che, pur non essendomi consultato né con il clero siciliano né con Roma prima di firmarlo, questo provvedimento mi sembra perfettamente in linea con le posizioni maturate negli ultimi anni dalla Chiesa. Il decreto cita moltissimi documenti, prodotti dalla conferenza episcopale siciliana e non solo, che spiegano perché, anche sotto il profilo del diritto canonico, non si può stare contemporaneamente dalla parte della mafia e del Vangelo. Su questo punto ritengo che la Chiesa sia assolutamente compatta” – aggiunge don Raspanti, ricordando anche le recenti parole pronunciate da Papa Francesco, secondo cui “non accettando il messaggio evangelico, i mafiosi si pongono fuori dalla Chiesa”.
Infine a chi lo accusa di avere impropriamente abusato del potere ecclesiastico, negando il sacro diritto al perdono dovuto a tutti indistintamente secondo l’insegnamento evangelico, risponde: “Se un pastore vede le sue pecore procedere verso il burrone ha il dovere di richiamarle e invitarle a tornare indietro. Io, da vescovo, sento la responsabilità di ammonire i mafiosi e fare tutto il possibile perché la loro anima si salvi”.
Parole forti, accostabili probabilmente soltanto all’anatema contro i mafiosi lanciato a gran voce da Giovanni Paolo II nella Valle dei templi di Agrigento nel 1993, in una realtà in cui il limite tra Chiesa e mafia non è stato sempre netto, prova fin troppo evidente la religiosità spesso letteralmente ostentata dai boss, non solo con santini, bibbie e partecipazioni palesi alle processioni di paese, ma addirittura con benedizioni chieste e ottenute prima di compiere efferati delitti e persino cappelle private scoperte nei rifugi dei latitanti. Situazioni cristallizzate nel tempo di una forma religiosa degradata e degenerata, al limite della blasfemia, idolatria che porta alla negazione di Dio, che rendono il decreto di don Raspanti “molto coraggioso, significativo ed importante”, come ha detto il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, in occasione della promulgazione.