Giovanni Borzani, resistente individuale
di Alessandro Pagano Dritto

Luca Borzani, La guerra di mio padre (Il nuovo melangolo, Genova, 2013, pp. 181, 16 euro). Nel libro l’autore racconta la prigionia del padre, internato militare durante la seconda guerra mondiale.
Il titolo dell’ultimo libro di Luca Borzani, La guerra di mio padre (Il nuovo melangolo, Genova, 2013, pp. 181, 16 euro), sembra promettere il racconto di una questione privata, una declinazione intima e individuale di una vicenda del periodo bellico.
L’autore vi ricostruisce la storia del padre, Giovanni Borzani, che il 9 settembre 1943 cadde prigioniero dei tedeschi insieme ad altri cinquemila soldati di istanza nella cittadella militare di Alessandria, assediata da trecento elementi delle forze naziste. La prigionia di Giovanni, consumata tra Germania e Polonia, si protrarrà per due anni fino agli ultimi mesi del 1945, e lui sarà uno degli Internati Militari Italiani (IMI), come la burocrazia classificherà da allora i soldati italiani prigionieri.
Il racconto di questo tempo è stato reso possibile dalle lettere e dalle cartoline che Giovanni spediva alla famiglia ogni volta che gli era possibile, alla madre Luigina e alla sorella Renata sfollate da Genova per evitare i bombardamenti; a queste si aggiunge un taccuino che l’uomo riesce a custodire per un anno a partire dalla sua cattura. Il materiale, ritrovato già raccolto e classificato dopo la morte del suo autore nel 2008, permette, oltre al rapporto sincronico – cioè contemporaneo – con la famiglia, uno diacronico – cioè attraverso il tempo – col figlio, che potrà provare a «guardare con gli occhi del padre» (p. 7) l’intera vicenda.
In effetti la promessa intimistica del titolo viene in questo senso quasi smentita dalla continua rete di relazioni di cui Giovanni Borzani è protagonista, sia nella ricostruzione degli eventi sia nell’economia della composizione del libro. La famiglia, come si è detto, composta però anche dal fratello Luciano internato altrove, i compagni di prigionia le cui voci, quando necessario e possibile, vengono proposte ad integrazione del suo stesso racconto; ma anche il figlio, che del padre segue le orme viaggiando nei luoghi della detenzione a distanza di più di sessant’anni dai fatti.
In una serie di capitoli distinti anche visivamente da un carattere di stampa corsivo, Luca Borzani alterna infatti alla vicenda paterna la memoria dimenticata di gran parte dei luoghi della prigionia, restituendo per cenni la storia che attraversarono dopo la guerra, i modi in cui furono spesso sottratti al loro passato recente nazista e trasformati di volta in volta in magazzini, depositi, comunque luoghi adibiti ad altro, quando non abbandonati o cancellati. Ma racconta anche aneddoti e curiosità, uno dei quali, ad esempio, riguarda il campo di Oberlangen, le soldatesse polacche detenute e il loro liberatore Stanislaw Maczek (1892-1994) che dopo la guerra sarà cameriere in un locale di Edimburgo.

L’autore del libro Luca Borzani, che nel 2011 ha ripercorso i luoghi della prigionia del padre raccontandone poi la memoria nel suo libro.
Sono tutti brevi cenni, fugaci apparizioni di vite note o anonime, che contribuiscono a rendere quella di Giovanni una vicenda anche corale. Eppure rimane nell’orecchio quel titolo intimistico che parla di una guerra vissuta da una persona sola, non da una collettività che comunque pare rimanere sempre nello sfondo. E forse questo intimismo trova giustificazione proprio nell’irriducibile intimità che permise a Giovanni di superare questo periodo, l’intimità della scelta di campo che l’internato maturò di giorno in giorno decidendo di resistere sia alle chiamate dei nazisti che cercavano operai per le loro fabbriche, sia a quelle dei fascisti repubblicani che, seppure con qualche esitazione, cercavano uomini da arruolare nelle file del loro neonato esercito.

Lettera di un Internato Militare Italiano. Fu con lettere come questa e cartoline inviate dai diversi campi in cui fu rinchiuso che Giovanni Borzani riuscì a non perdere mai i contatti con la madre, la sorella e il fratello.
Giovanni insomma non fu mai un «optante», come si diceva allora, non scelse mai di venire a patti con i responsabili della sua detenzione in cambio di condizioni di vita migliori di quelle dei campi: resistette. Non fu certo l’unico a farlo: ci fu chi ne fece una questione politica e resistette a nazisti e fascisti perché credeva in altri, diversi e vari, valori; ci fu chi ne fece invece una questione di dignità militare e di corpo d’armi e trovò nello spirito della caserma la forza di non appartenere mai al nemico.
Le motivazioni che spinsero invece Giovanni a resistere non sono chiare ma in ogni caso sembra di poter capire che furono intime, cioè legate a una condizione della coscienza, a una sorta di rigoroso imperativo morale. Giovanni, dice il figlio, non era mai stato né un fervente fascista né un fervente antifascista, non ne fece una questione politica quando scelse di non seguire l’esempio del fratello Luciano che invece aveva «optato» riuscendo quindi ad avvicinarsi alla famiglia. Ma continuò comunque a resistere fino alla fine, anche quando i tormenti per la lontananza della madre e della sorella si facevano più grandi per il ritardo di una lettera o per la manifestazione di un’ansia trapelata tra le parole ricevute. In questo senso si può certo dire che quella raccontata nel libro è la guerra tutta personale di una persona che lotta per trovare in sé i motivi per resistere.

Lo scrittore Giovannino Guareschi (1908-1968) durante l’internamento. Luca Borzani riporta vari passi dei suoi diari dai campi, dove sembrò non rinunciare mai a uno sguardo e a uno stile ironici. Parlando del tipico internato che per ripararsi dal freddo invernale si copre di stracci, Guareschi scrisse: “Non è più un uomo: è il piano quinquennale dell’autarchia” (cit., p. 57)
Dopo la guerra molti ex internati trovarono solo con grande difficoltà il modo di raccontare la propria esperienza, che veniva vista da molti con diffidenza: l’accusa di collaborazionismo estesa a tutti senza differenze era sempre in agguato. Solo nel tempo, e spesso dopo anni, si diffusero le memorie di alcuni internati che Luca Borzani usa nel suo libro: quelle di Giovannino Guareschi (1908-1968), ad esempio, futuro autore delle storie di Don Camillo e Peppone, o di Alessandro Natta (1918-2001), futuro segretario del Partito Comunista Italiano (PCI), o di Giovanni Ansaldo (1895-1969), giornalista. Giovanni, invece, fu tra coloro che scelse di non raccontare, anche se, precisa il figlio, «di certo per lui non raccontare non aveva voluto dire dimenticare» (p. 171). Questo libro pareggia i conti e restituisce di lui l’immagine di resistente individuale.