Domenico Quirico inviato in Siria scomparso da 20 giorni
di Alessandro Pagano Dritto
Un articolo dovrebbe vivere ventiquattro ore. Poi dovrebbe diventare vecchio o raccontare il passato. E in questo caso non ci si può che augurare che sia davvero così. Domenico Quirico, reporter del giornale torinese La Stampa attualmente impegnato in Siria, non dà sue notizie da venti giorni e intorno alle 20.00 di ieri, 29 aprile 2013, ne dà l’annuncio ufficiale il suo direttore Mario Calabresi.
Spiega Calabresi che già in passato, quando era stato in Mali, in Libia, e già nella stessa Siria, Quirico aveva abituato i suoi familiari e i suoi colleghi a brevi periodi di silenzio: sei giorni, l’ultima volta in Mali. Perciò all’inizio il silenzio che era seguito all’ultimo sms inviato a un collega non aveva destato eccessive preoccupazioni. Lui stesso aveva sempre detto di trovare ingombranti certe tecnologie come i telefoni satellitari, che sono utili perché prendono da per tutto, ma al tempo stesso sono pericolosi perché rivelano la presenza di qualcosa di anomalo, probabilmente un giornalista. E lui invece, Quirico, preferiva agire nell’anonimato, mescolarsi tra la gente e vivere con la gente gli scenari e gli eventi più drammatici.

Domenico Quirico (Asti, 1951), reporter del quotidiano torinese La Stampa. Di lui non si hanno notizie da venti giorni. (ANSA)
Venti giorni di silenzio però sono troppi. Già da qualche tempo l’abitudine aveva lasciato spazio all’inquietudine e al sospetto e il giornale, in accordo con i familiari del giornalista, aveva silenziosamente contattato la Farnesina e silenziosamente aveva collaborato a ritrovarne le tracce. Ma i frutti sperati non sono arrivati, la voce di Quirico o una sua parola non sono ricomparse agli occhi e alle orecchie di nessuno dei parenti o dei colleghi, e così, scrive sempre Calabresi, «abbiamo condiviso con le autorità italiane e la famiglia la decisione di rendere pubblica la sua scomparsa, sperando di allargare il numero delle persone che potrebbero aiutarci ad avere informazioni».
Al caso si sta interessando il nuovo ministro degli esteri Emma Bonino e anche il segretario della Federazione Nazionale della stampa Franco Siddi ha lanciato un appello per la sua liberazione: «Domenico Quirico è solo un giornalista. Chi gli impedisce da una ventina di giorni di comunicare con il suo giornale e i suoi familiari, deve sapere che non ha a che fare con un nemico né con una fazione in guerra. Chiunque l’abbia fermato o ne impedisca i movimenti e la parola ne prenda atto e accolga il nostro appello alla sua piena libertà».

Guerriero della guerra civile libica del 2011. In Libia Domenico Quirico fu ostaggio dei lealisti per ventiquattro ore insieme ad altri colleghi italiani. Negli eventi morì l’autista del gruppo. (EPA)
Non è forse illecito pensare che pronunciando queste parole la sua mente andasse anche alla sua esperienza in Libia durante la guerra civile del 2011. Lui stesso, insieme ai colleghi del Corriere della Sera Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina e a Claudio Monici di Avvenire, fu preso in ostaggio da un gruppo di lealisti che si apprestavano a ucciderli – i lealisti vedevano il sostegno dell’Italia ai ribelli come un tradimento improvviso di lunghi anni di amicizia col governo libico – se non fossero intervenuti due persone a dissuaderli.«Io ho incontrato in ventiquattro ore – dirà tempo dopo Quirico – il tempo del mio sequestro, […] l’odio e la pietà».
E la sua pietà, nel senso latino del termine di rispetto per il sacrificio dei morti, è anche per l’autista del gruppo, freddato sul posto, che era morto «perché io l’ho ingaggiato, perché io devo andare a Tripoli, perché io devo vedere, e quest’uomo ha fatto il suo lavoro con il coraggio dei semplici, degli umili, quelli che vogliono rispettare il rapporto che aveva instaurato con me, che era un rapporto di dare e di avere e lo ha fatto fino alla morte».
Sempre e solo l’umanità è al centro degli scritti di Quirico, che non concepisce il giornalismo se non come un esserci, essere «là dove l’uomo soffre, raccontare le storie, la vita, la tragedia dell’uomo che suda sangue tutti i giorni per sopravvivere».

Imbarcazione con migranti. In una simile si è imbarcato nel 2011 Domenico Quirico per descrivere poi in un reportage il tragitto di alcuni migranti dalle coste tunisine a quelle italiane. (AFP)
Non si tirò indietro nemmeno quando, sempre nel 2011, volle testimoniare in prima persona lo sbarco dei migranti in Italia, salendo lui stesso in uno di quei barconi senza nome che non necessariamente hanno la fortuna di percorrere per intero il tragitto compreso fino a Lampedusa. Partì una notte dalla spiaggia di fronte agli hotel bene di Zarzis, sulla costa tunisina, venendo già rifiutato da un primo battello perché pericoloso sahafi, giornalista. Non demorse e riuscì a partire con un secondo battello. Nel resoconto che ne fece poi per il suo giornale descrive giovani ragazzi, molti dall’entroterra, alcuni dei quali vedono il mare per la prima volta, descrive l’amara gerarchia dei disperati, con quelli che occupano i posti migliori e riescono a non bagnarsi e quelli, invece, «che stanno in fondo a prora, immersi nell’acqua, dove le baguettes e le bottiglie di acqua arrivano rare. E che fanno il viaggio, ventidue ore, immersi in quella abulia spessa che sostituisce il sonno. Sono quelli che non hanno mai il coraggio di chiedere quando finirà la loro sofferenza, se ci sono pericoli, e che cosa li attende». Fa conoscenza col suo vicino di tragitto, Karim che vuole trovarsi un lavoro a Parigi, non manca d’umanità nemmeno per il conducente della bagnarola, che, «baffi già bianchi di nonno», si fa largo tra la folla con un cacciavite a riparare un guasto al motore. E col cacciavite come spada sembra Orlando, dice Quirico, questo conducente, così come Muammar Gheddafi è altrove un personaggio «shakespeariano, che morirà lì, nelle rovine del suo sogno, della sua utopia», e la notte qui, sopra i naufraghi, è «leopardiana, fitta di stelle e di luna».
È la dimostrazione di un giornalismo, quello di Quirico, che non teme di farsi letteratura e di raccontare l’Uomo. Un giornalismo che, poiché gli articoli come questo il giorno dopo non hanno più lo stesso valore, avremo occasione di leggere ancora per molto tempo.






