Turchia: promulgata legge-censura su Internet
di Riccardo Venturi
In Turchia, il trend autoritario che nel 2013 ha portato all’esplosione delle proteste di Gezi Park, sembra continuare per mano del primo ministro Recep Tayyip Erdoğan e del partito di governo, l’AKP. La stabilità politica del paese è messa a dura prova come non mai. Non solo Siria, Ucraina e Venezuela, per motivi diversi, vivono momenti difficili. Anche sul Bosforo, come si è visto negli ultimi giorni, la spinta a manifestare il dissenso non si è esaurita; ad Istanbul si resiste contro le restrizioni che mettono in pericolo la libertà di espressione. La deriva repressiva si è concretizzata ulteriormente martedì, quando il presidente turco Gül ha promulgato una “legge-bavaglio” che impone un rigido controllo sul web.
Approvata il 5 febbraio scorso in Parlamento, la norma prevede due misure principali. Innanzitutto, l’autorità turca per le telecomunicazioni (la Presidenza della Comunicazione e Telecomunicazione; in turco TIB, Telekömunikasyon Iletisim Baskanligı) potrà oscurare siti, bloccare l’accesso ad Internet o rimuovere contenuti illegali ed offensivi, a sua discrezione. Secondo la nuova legge, se la TIB rileva infrazioni, ha facoltà di “staccare la spina” a qualsiasi indirizzo web in circa quattro ore, senza alcun ordine preventivo della magistratura. Non sono presi in considerazione solo copyright, gioco d’azzardo, prostituzione o abuso di minori: anche gli articoli della Costituzione riferiti alle libertà di religione, pensiero, espressione e stampa possono diventare un pretesto per operare una censura indiscriminata. Inoltre, i provider e persino i locali pubblici che offrono un punto wi-fi gratuito, dovranno conservare i dati sensibili degli utenti per due anni e, su richiesta, metterli a disposizione delle autorità. Lo stato potrà così avere accesso alle cronologie e al traffico telematico di ogni cittadino utilizzatore della rete.
Gül ha quindi deciso di firmare il testo, ma non senza riserve: il capo dello stato ha preteso alcuni emendamenti. L’autorità di controllo, in seguito alla decisione di oscurare un sito, dovrà disporre dell’autorizzazione di un tribunale entro ventiquattro ore. Troppo poco, secondo gli oppositori: la TIB potrà comunque far valere il proprio veto e solo in seguito passare per la magistratura. L’ordine potrebbe invece essere reso necessario da prima, avvalorando la decisione della TIB con il giudizio di una corte. La norma in questione rimane comunque controversa, in quanto accentra tutti i poteri di controllo in un’autorità che è diretta espressione dell’esecutivo. Inoltre, Gül è stato criticato anche per aver bypassato la Corte Costituzionale, esattamente com’è successo con la riforma del Consiglio supremo dei giudici e dei procuratori (il CSM turco). In questo caso, a dispetto della sua immagine di “moderato”, non ha voluto fare ricorso al controllo di costituzionalità prima della firma, pur rientrando nei suoi piani. Il partito di opposizione kemalista CHP (Partito Repubblicano del Popolo), ricorrendovi immediatamente lo ha anticipato, indebolendo la sua immagine: in caso di sentenza negativa, la massima corte non si potrà comunque esprimere retroattivamente, favorendo e dando ampi margini di azione ad Erdoğan. Al contrario, al netto di un parere positivo, la questione uscirebbe dai confini nazionali ed entrerebbe in gioco la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
L’esecutivo giustifica la legge-bavaglio, legandola alla necessità di tutela dei minori e di difesa della privacy e dei diritti individuali. Secondo Erdoğan, è normale agire dove si riscontra illegalità. Tuttavia, va considerato che il piano dell’AKP si colloca in un contesto di crisi che vede il governo travolto da scandali di corruzione. Gli oppositori rimarcano l’atteggiamento intimidatorio che sta alla base di questa legge e ne sottolineano la volontà di frenare la diffusione di informazioni che potrebbero mettere in ulteriore difficoltà gli esponenti più importanti della cerchia del primo ministro, il quale ormai vede vacillare la sua popolarità. Erdoğan si è difeso dichiarando che «l’unico giudice dell’AKP è l’elettorato: se al voto risulteremo essere ancora il primo partito del paese, significa che il governo è onesto». Gli avversari politici obiettano e sostengono che, mentre il giudiziario viene delegittimato, la morsa della censura colpisce l’informazione.
Anche Gül viene direttamente accusato nell’ultima ondata di proteste anti-censura che, nel loro complesso, vanno avanti ormai da più di due anni. Secondo il Today’s Zaman, l’ambizione dell’attuale capo dello stato sarebbe quella di rimanere ai vertici istituzionali in co-abitazione con Erdoğan, anche nei prossimi anni: mentre il primo ministro non fa mistero del suo progetto di progressiva “presidenzializzazione” della Turchia, Gül potrebbe sostituirlo a capo del partito e nel ruolo di capo dell’esecutivo. Entrare in aperto conflitto con Erdoğan, decidendo di non firmare la legge-bavaglio, avrebbe significato precludersi ogni strada verso questo obiettivo. Gli oppositori hanno quindi riconsiderato la funzione naturale di Gül come “deterrente interno” alla vena autoritaria di Erdoğan. Quella che veniva considerata una figura conciliante, ha aggiunto al danno della firma, la beffa di averla annunciata su Twitter, scatenando la reazione degli internauti. Il presidente ha infatti perso decine di migliaia di follower in poche ore, grazie alla campagna online “#UnFollowAbdullahGul”. Lui si giustifica dicendo di non potersi assumere le responsabilità della Corte Costituzionale e di aver reso la norma più equa con gli emendamenti. Resta il fatto che ha decisamente perso credibilità, dato il suo ruolo centrale nella vicenda.
Mentre i manifestanti istanbulioti, esattamente come nel 2013, vengono dispersi dalla polizia con l’utilizzo di lacrimogeni, molte voci di protesta si levano all’interno del paese ed all’estero. Il quotidiano Radikal ha deciso di prendere posizione con un’iniziativa che prevede l’autodistruzione di alcune notizie nell’hompage del suo sito web. Dopo quattro ore, gli articoli scompaiono “misteriosamente” per mostrare gli effetti concreti della legge-censura. In realtà, il mondo di Internet era stato messo nel mirino del governo già da tempo. Durante i drammatici giorni di Gezi Park, con la Turchia nell’occhio del ciclone della preoccupatissima opinione pubblica internazionale, Erdoğan aveva accusato i social media di essere parte di un complotto internazionale, di creare disinformazione ad arte e di rovinare l’immagine del paese nel mondo. In alcuni casi, l’utilizzo dei network come piattaforma informativa nel corso delle proteste ha portato a vari arresti e multe.
Non a caso, allo stesso tempo, il primo ministro ha tentato più volte (senza successo) di concludere accordi con i giganti Facebook e Twitter per mantenere la situazione sotto controllo. Negli ultimi anni, migliaia di siti sono stati oscurati. Famoso è il blocco dell’accesso a Youtube, datato 2007: la censura poteva essere facilmente aggirata, ma la vicenda legata al “Tubo” rimane comunque indicativa. In generale, la libertà di espressione e la libertà di stampa sono messe a dura prova in un paese dove vigono ancora molti tabù. Solo guardando i dati relativi al 2013, si capisce la dimensione del problema: stando a quanto riporta “Reporters Without Borders”, a fine anno, il totale di giornalisti in carcere si aggirava intorno alle sessanta unità, mentre, durante le proteste di Gezi Park, i media che hanno coperto gli avvenimenti di piazza Taksim hanno pagato tributo con 153 giornalisti feriti e 39 incarcerati. Secondo l’organizzazione non governativa, la repressione avrebbe ignorato solo i media considerati “allineati”. Per quanto riguarda le altre testate, ai licenziamenti ed alle dimissioni forzate si sommano gli effetti di un codice penale ultra-restrittivo e la facilità con la quale vengono comminate multe astronomiche che rendono estremamente difficile la professione di giornalista.
In Turchia, l’utilizzo della rete, ed in particolare dei social network, è diventato il principale strumento di opposizione al decennale governo AKP. L’eterogeneo fronte anti-Erdoğan soffre della mancanza di un’adeguata rappresentanza politica. Questi ultimi mesi, con l’emergere della Piattaforma Gezi, hanno dimostrato che, grazie ai nuovi media, chi protesta si può organizzare ed aggregare intorno ad un obiettivo comune. Il primo ministro non vuole lasciare spazio a queste istanze e stringe la personale morsa sull’informazione. Tutto questo anche a costo di esasperare le divisioni interne ed attirare le critiche di numerosi osservatori internazionali.