Intervista a Mattia Cacciatori, fotoreporter ad Istanbul nei giorni delle proteste
di Valeria Vellucci
Il giovane fotoreporter veronese Mattia Cacciatori, ha fatto rientro in Italia nella tarda serata di lunedì. Partito per Istanbul il 23 giugno, sabato notte viene fermato dalla polizia turca nei pressi di piazza Taksim. È il secondo giornalista italiano ad essere arrestato durante questi 2 mesi di manifestazioni. La sua attività di fotoreporter professionista, specializzato in reportage in luoghi segnati da guerre o conflitti, nasce dal desiderio di dar voce a coloro che sono impossibilitati nel raccontare ciò che accade. La fotografia, per Mattia, è il modo per dare una risposta alle molteplici domande che di frequente ci si pone.
Quella di sabato è stata sicuramente una delle giornate più calde degli ultimi giorni, soprattutto per l’elevato numero di arresti. Come si presentava la situazione ad Istanbul ed in particolare nei pressi di piazza Taksim?
Sabato era prevista, per le ore 19, una grande manifestazione nella zona di Taksim e quindi nei pressi di Gezi Park. Da parte dei manifestanti era stata organizzata questa manifestazione pacifica per rivendicare il diritto di transito in piazza Taksim in quanto luogo pubblico. La situazione è apparsa molto tesa sin dal primo momento, la polizia era molto nervosa ed intenzionata a disperdere la folla. Inoltre, per i giornalisti, è stato impossibile documentare gli avvenimenti perché, già dopo appena un’ora, cariche della polizia hanno attaccato con lacrimogeni e gas. Mi trovavo, quindi, nei pressi di Istiklal Caddesi quando sono stato fermato e prelevato dalla polizia. Dopo aver trascorso due notti in carcere, è stato lunedì che il procuratore generale del tribunale ha confermato la mia presenza come giornalista.
La polizia è intervenuta contro di te perché credeva tu fossi un manifestante, oppure perché ti aveva riconosciuto come fotoreporter?
La polizia non ha volutamente riconosciuto il mio ruolo di fotoreporter, nonostante avessi immediatamente esibito il tesserino dell’agenzia, carta di credito e passaporto. Per loro, in quel momento, io ero un manifestante sovversivo. Questa è la logica secondo la quale agiscono ed intervengono per giustificare l’arresto di un giornalista.
Quali sono state le tue impressioni riguardo l’utilizzo della violenza, da parte della polizia turca, nei confronti dei manifestanti?
Violenza utilizzata come un modo per ‘risolvere le cose’. Le manifestazioni, come anche le persone che vi prendono parte, sono prevalentemente pacifiche. Gli scontri più duri tra polizia e manifestanti avvengono nel momento in cui questi ultimi, dopo essere stati preventivamente attaccati, tentano di difendersi.
Alla luce di quelle che sono le tue molteplici esperienze in zone teatro di guerre e conflitti, quali sono le sensazioni riguardo alla situazione turca ed in particolare di Istanbul?
Ogni realtà è un mondo a sé stante. In Turchia, non vi è né una guerra civile né una rivoluzione in atto ma un movimento pacifico che, per varie sfumature, si differenzia da quelli che negli ultimi anni si sono visti in giro per il mondo o in Italia. Le persone scendono ogni giorno in piazza per manifestare in difesa della libertà e dei diritti fondamentali e per questo vengono sistematicamente attaccate. Inoltre, di Istanbul, ho avuto l’impressione di due mondi che si incrociano, l’uno ‘occidentale’ e l’altro orientale. In piazza si trovano persone appartenenti a ceti sociali, etnie e religioni differenti. Tutti insieme manifestano per la rivendicazione degli stessi universali diritti.
Quanta disinformazione c’è e quanto è permesso raccontare, in modo obiettivo, quella che è la reale situazione?
La realtà turca, alla luce di ciò che sta accadendo negli ultimi mesi, è alquanto complessa e spesso difficile da comprendere. A volte i giornali parlano di cose che conoscono poco, deformando così quella che è, di fatto, la realtà delle cose. Questo accade anche nell’ambito della stessa stampa turca, che spesso tende a non diffondere notizie circa l’arresto di giornalisti, identificandoli, invece, come semplici ‘cittadini stranieri’ oppure turisti.
C’è qualcosa, un particolare sguardo, un volto o una scena che, nei pochi secondi di uno scatto, ti ha istantaneamente narrato ciò che accade?
La violenza della polizia turca nel sedare le sommosse. Mi sono in tal modo reso conto che non si può sempre parlare di libertà democratica in un paese come la Turchia.
Quanto credi che gli arresti nei confronti dei giornalisti possano davvero essere efficaci per indebolire, non solo in Turchia ma anche in altre zone, l’informazione? Potrebbero invece generare l’effetto contrario e quindi porre sotto la luce dei riflettori quanto la censura e la non libertà di stampa siano un fenomeno dilagante?
Dipende da caso a caso. Per quanto riguarda la Turchia dipende anche da quanto, e quando, i giornali vogliano parlare dell’argomento. Spesso dipende anche da ciò che il momento richiede, a volte le redazioni tendono a pubblicare in base a quello che potrebbe essere definito ‘lo scalpore della notizia’.
Risposte alle domande che di consueto ci si pone. Risposte che per te arrivano attraverso le immagini. Quali domande ti eri posto prima di partire alla volta di Istanbul e che risposte hai ottenuto?
Credo che questa esperienza mi abbia insegnato, più di altre, la necessità di essere un uomo libero. La domanda che mi ero posto prima di partire era: come ci si sente in un paese che non lascia liberi di godere della propria, innegabile, libertà? Ora, credo di averlo capito.