Dagli anni 70 ad Eternit: come i disastri ambientali potevano essere limitati
di Chiara Gagliardi
Si è concluso due settimane fa uno dei processi più seguiti degli ultimi anni: dopo dieci anni in tribunale, il reato imputato agli stabilimenti Eternit cade in prescrizione. L’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny, imputato di disastro doloso ambientale permanente e condannato in Corte d’Appello a diciotto anni di carcere, vede annullata la sua sentenza. Proprio in questi giorni, inoltre, cade il terzo anniversario di uno dei più gravi disastri ambientali a livello internazionale: la notte del 3 dicembre 1984 quaranta tonnellate di inquinanti uscirono da un impianto nella cittadina di Bhopal, in India, causando una nube tossica che uccise in poco tempo quasi tremila persone. Troppo spesso, negli ultimi anni, i disastri ambientali avvengono lasciando danni incalcolabili, mentre nessuno si occupa della bonifica e nessuno viene considerato responsabile: il sistema della giustizia sembra incapace di individuare le esatte cause e i colpevoli.
Il caso Eternit è in tribunale dal 2004, ma le sue origini risalgono ai primi anni Ottanta. Eternit, infatti, è il nome del cemento-amianto, brevettato agli inizi del Novecento, il cui nome evoca la grande resistenza. Negli anni sessanta, alcuni studi dimostrano che le fibre di amianto sono cancerogene: a partire dal 1984 vengono sostituite con altro materiale, ma ormai è troppo tardi. I prodotti costruiti con Eternit, dalle lastre per capannoni ai tetti, sono dappertutto e il danno è grande soprattutto per gli operai e per le persone che risiedono intorno alle fabbriche. In trent’anni si sono registrati nel nord Italia migliaia di casi di asbestosi e cancro. Dal 2004, le indagini partite da Torino si sono ampliate fino a scoprire un grandissimo numero di malati e morti. Le condanne per i responsabili dell’azienda sono state annullate proprio in questi giorni; nessuno, per la giustizia, è stato ritenuto responsabile del disastro.
Uno dei più grandi incidenti in Italia, che poi avrebbe dato il nome a una serie di direttive europee, è quello di Seveso (1976). L’avaria di un reattore chimico provoca la fuoriuscita di un grandissimo quantitativo di diossina, mentre una nube tossica avvolge i paesi vicini: non ci sono morti, ma l’ambiente circostante viene quasi completamente disseccato e distrutto. Gli effetti sulla salute umana sono correntemente sotto osservazione, dal momento che la diossina TCDD è classificata come composto cancerogeno. Anche nel caso di Seveso, le misure di bonifica sono tardive e poco efficaci.
Del calibro di un disastro ambientale è anche la situazione di Bussi sul Tirino, in Abruzzo: il processo, riaperto da ottobre, è intentato contro i responsabili degli stabilimenti chimici che negli anni settanta hanno creato tre discariche abusive, in cui sono stati poi disposti rifiuti classificati come tossici e pericolosi. Il fiume Tirino e il suolo della regione risentono di una grande contaminazione, che si estende all’acquedotto urbano e all’acqua potabile. Nonostante il danno alla natura e agli abitanti della zona, paradossalmente, il fatto che negli anni settanta le attuali leggi ambientali non fossero ancora in vigore potrebbe costituire un argomento a favore della difesa.
Davanti ad un inquinamento massivo dell’ambiente, la reazione è sempre la stessa: ci si chiede come sia possibile che nessuno sia considerato responsabile per quanto avvenuto, e se veramente i disastri non potessero essere evitati. I fenomeni ambientali spesso sono di una tale complessità che diventa difficile ricostruire il rapporto causa-effetto; a fianco di ciò, tuttavia, la legge non riesce a prendere le adeguate contromisure. Le misure di sicurezza e il monitoraggio continuo non possono ovviamente evitare tutti gli imprevisti, ma basterebbe attenersi rigidamente alle norme per ridurne le possibilità. Alcuni disastri si potevano evitare? Certamente sì, e non è sottovalutando il rischio ambientale che la situazione potrà migliorare.
@chia0208