Pubblicato il: Mer, Ott 17th, 2012

Festival del giornalismo di Ferrara, le storie di quattro rivoluzionarie silenziose

di Alessandro Pagano Dritto

Quattro donne parlano sul palco del cinema Apollo di Ferrara, quattro donne chiamate dalla rivista Internazionale. Coordinate dalla giornalista di Repubblica Francesca Caferri, raccontano la Rivoluzione silenziosa delle donne, come recita il titolo dell’incontro, cioè la loro rivoluzione. Che non è una rivoluzione fatta con le armi e i proiettili, ma di piccoli gesti in apparenza insignificanti, che in determinati contesti possono dire molto.

Quattro donne, quattro storie.

Gameela Ismail è stata una delle protagoniste, e senz’altro anche una delle anticipatrici, delle proteste che nel 2011 portarono in Egitto alla caduta del governo di Hosni Mubarak. È insomma uno dei volti di piazza Tahrir, la celebre piazza del Cairo in cui si sono svolte le proteste: uno dei simboli della piazza simbolo delle primavere arabe tutte e non solo di quella egiziana.

Gameela Ismail, uno dei volti della rivoluzione egiziana del 2011 e delle proteste di piazza Tahrir.

Gameela fuga subito ogni ombra di ingenuità nello spiegare il successo della sua rivoluzione e in generale delle rivoluzioni arabe: è consapevole che far cadere un dittatore, si chiami questo Mubarak, si chiami Gheddafi, non indica una vittoria, l’esito finale di una rivoluzione. Anzi, ne segna l’inizio, perché è il via libera alle riforme che risponderanno alle esigenze della gente: «Dopo una rivoluzione – scriveva Gameela già un anno fa – non c’è nessun modo di stabilire un compromesso tra sicurezza e libertà, neppure tra stabilità e rispetto per i diritti dei cittadini. Questo modo di parlare è finito. La giustizia per tutte le persone è la loro sicurezza. Il cambiamento decisivo e la risposta alle domande della gente sono la giustizia e la sicurezza». E non è certo detto che il nuovo governo darà facilmente alla gente quello che chiede, ma, dice Gameela dal palco di Ferrara, dopo piazza Tahrir la gente sa che può chiedere ciò che vuole, sa di poter protestare se sta male, sa di avere il diritto di far sentire la propria voce. È questa grande consapevolezza a costituire la vera rivoluzione, la consapevolezza di essere, testuali parole, «l’attore principale» dello scenario politico. E questo Gameela sa bene quanto costi ottenerlo per averlo provato sulla propria pelle, lei con tutta la sua famiglia, da quando suo marito Ayman Nour, accusato senza prove di falsificazione, viene arrestato nel 2005 mentre corre per le presidenziali; da quando le sedi del suo partito vengono date alle fiamme e lei stessa si salva per miracolo; da quando nel 2011 viene arrestato anche il figlio Nour, proprio in relazione agli eventi di piazza Tahrir.

Anche Manal al Sharif conosce la paura che a un certo punto tocca chi vuole cambiare le cose, quando arrivano puntuali le minacce di chi quelle cose non vuole cambino. Eppure sul palco è lei stessa ad ammettere che la sua piccola rivoluzione non è stata una rivoluzione politica. Nessun partito, nessun legame con la politica: «Non mi sento una rivoluzionaria», confessa.

Manal viene da un paese tra i più conservatori al mondo, come spesso viene indicato: l’Arabia Saudita. Un paese dove, come lei stessa ha confidato al giornalista dell’Independent Guy Adams nel maggio scorso, «Questa è la vita per una donna saudita: dovunque andiamo, qualunque cosa vogliamo, noi siamo proprietà di un uomo».

Manal al Sharif. Grazie a Facebook ha invitato tutte le donne saudite provviste di patente a filmarsi mentre guidavano la propria macchina. Da allora ha avuto molti disagi e anche delle minacce di morte.

Manal ha avuto un’educazione conservatrice, all’università assisteva alle lezioni in un’ala riservata alle donne e il professore lo vedeva su uno schermo di una televisione a circuito chiuso.

Dopo l’università trova lavoro in una compagnia petrolifera e ci rimane per un decennio: proprio per lavoro nel 2009 ha l’occasione di andare all’estero e visitare Boston, una città in cui una donna non ha bisogno della presenza costante di un uomo per fare tutte quelle piccole cose di cui è composta una giornata e di cui è composta la vita. Scopre insomma un altro mondo.

Tra queste piccole cose, forse tra le più banali, ce n’è una che cambierà la vita di Manal: guidare una macchina. L’Arabia Saudita infatti è l’unico paese in cui le donne non guidano, perché non possono. Devono camminare a piedi, prendere un taxi, o meglio ancora farsi accompagnare da un parente maschio. Se no, appunto, andare a piedi.

Ed è dopo l’ennesima camminata che scoppia la sua rivoluzione: si mette al volante e si fa filmare mentre guida. Poi posta il tutto su Youtube. Il problema di Manal è che non si limita a questo. Manal va oltre, chiede ad altre donne saudite di filmarsi al volante e caricare il filmato in rete. Crea un gruppo su Facebook e fissa per tutte una data, il 17 giugno 2011. Il costo di tutto questo sono minacce più o meno dirette, gruppi a lei ostili sui social networks e nove giorni di carcere. Perde il lavoro ed è persino costretta ad annullare un viaggio a Washington, dove l’avevano invitata a esporre la sua esperienza.

Ad oggi le donne saudite non possono ancora guidare, ma qualcosa grazie a Manal si è mosso.

Azadeh Moaveni (@parstimes.com). Giornalista americana di origini iraniane, firma del Times e del Daily Beast, ha descritto in numerosi articoli e in tre libri le rivolte quotidiane e silenziose dei giovani iraniani.

Azadeh Moaveni, invece, giornalista del Daily Beast e del Times, ha scritto alcuni libri sull’Iran e sui suoi giovani, in particolare sulle giovani, che portano avanti anche lì una rivoluzione silenziosa fatta di piccoli gesti quotidiani e solitamente lontana dal clamore suscitato dalle proteste che nel 2009 seguirono la riconferma di Mahmud Ahmadinejad alla presidenza del paese.

Il suo libro più famoso è Lipstick Jihad del 2006, traducibile come «Jihad col rossetto» (per l’Italia, Pisani, Roma, 2006) ma quello che sul palco viene citato più di frequente, anche in virtù degli espliciti riferimenti di Francesca Caferri è Honeymoon in Teheran del 2005, (Matrimonio a Teheran, Newton Compton, Roma, 2009), che racconta la vita matrimoniale delle donne iraniane, e della loro partecipazione ai corsi prematrimoniali, sempre in quest’ottica generale del racconto dei giovani del suo paese.

In un suo articolo del gennaio 2009, la stessa Azadeh racconta un episodio non ricordato a Ferrara: il comportamento da tenere nel caso una donna venisse avvicinata per strada e accusata di immoralità perché sta mostrando le caviglie o perché il velo lascia scoperti troppi capelli. La donna, è il consiglio, deve urlare e attirare l’attenzione dei passanti accusando l’uomo di essersi avvicinato e quindi di aver leso lui la propria dignità femminile. È questa la rivoluzione silenziosa della gioventù e in particolare delle giovani donne iraniane.

Una rivoluzione silenziosa anche quella delle donne siriane, alle prese con il difficile momento della guerra civile che svuota le città e le famiglie.

Ghada Ghazal, attivista siriana, intervistata dopo l’incontro di Ferrara.

Così è una rivoluzione silenziosa anche quella di Ghada Ghazal, la cui forza sta proprio nella semplicità della sua storia comune a molti altri suoi connazionali: una vita nella paura di esprimere la propria opinione quando questa non collima con quella del governo, il padre arrestato davanti ai suoi occhi quando era adolescente, la televisione da non ascoltare ad alto volume perché quello che vi si dice potrebbe insospettire qualcuno e far scattare una denuncia. Insomma una vita sempre sul chi va là, sempre nella paura e nella diffidenza. E poi il presente del sangue, della morte e della distruzione della guerra civile che Ghada dipinge con la passione dell’attivista, i problemi a entrare e uscire dal paese e l’aiuto da dare nella società che si sfalda ogni giorno di più.

Il governo ha usato per primo la violenza che ancora oggi continua a usare sparando su manifestanti pacifiste che chiedevano riforme e il progresso del paese ed è molto difficile, se non impossibile, rimanere pacifici quando uccidono un amico o un parente. È ora che l’Occidente smetta di commuoversi a parole e passi ai fatti, alle vie diplomatiche di cui la Siria ha bisogno per uscire dalla violenza.

«Faccio fatica a dormire – dice Ghada pensando alle sue notti a Ferrara lontano dalla Siria – perché quando poggio la mia faccia sul cuscino mi manca il rumore dei bombardamenti».