Stereotipi senza frontiere: il rapporto tra Hollywood e la rappresentazione delle donne
di Amira Fulvia Turazzi
Il motto del Geena Davis Institute on Gender in Media è “If She Can See It, She Can Be It”, ovvero “Se lei può vederlo, lei può esserlo”. Ed è proprio di quel “If She Can See It” che si occupa il primo studio globale sui pregiudizi di genere nei film di successo, condotto dall’Annenberg School for Communication and Journalism (Università della California del Sud).
La promotrice dello studio è l’attrice premio Oscar Geena Davis che, attraverso il suo istituto, vuole creare una nuova consapevolezza all’interno dell’industria cinematografica, per poter portare più equilibrio nella rappresentazione dei ruoli.
La ricerca Gender Bias Without Borders, pregiudizi di genere senza confini, è un’analisi dei ruoli femminili ritratti in film girati tra il 2010 e il 2013. Il campione delle 120 pellicole analizzate comprende i 10 titoli che hanno avuto maggior successo nelle aree geografiche considerate più economicamente rilevanti per l’industria del cinema: Australia, Brasile, Cina, Francia, Germania, Giappone, India, Corea, Regno Unito, Russia e Stati Uniti.
I fattori misurati sono semplici: quante volte un personaggio femminile appare sullo schermo? E quante volte parla? Ha un ruolo di primo piano, o è poco più di un elemento d’arredo? Ma, soprattutto, che lavoro svolge?
I risultati sono assolutamente rivelatori: per ogni 10 personaggi, solo 3 sono donne. E solo 2 volte su 10 queste donne sono protagoniste. Tutto ciò in netta contrapposizione con la realtà, in cui le donne rappresentano la metà della popolazione del pianeta, ma in linea con i pregiudizi di genere, come evidenziati di recente dalle Nazioni Unite.
Le percentuali si abbassano ulteriormente per quel che riguarda la rappresentazione di donne-lavoratrici. Nel campione analizzato, solo il 22,5% delle donne svolge una professione, quasi la metà rispetto al numero reale globale, 39,8%.
La discrepanza si fa ancora più acuta in Paesi come Francia, Russia o Australia, dove la percentuale di donne lavoratrici rappresentate nei film nazionali, è meno della metà rispetto a quella delle donne che costituiscono la forza lavoro.
Secondo Phumzile Mlambo-Ngcuka, sotto-segretario generale di UN Women, l’importanza del cinema nella formazione di norme sociali fa sì che gli stereotipi di genere vengano assimilati e perpetrati ovunque. Uno degli obiettivi delle Nazioni Unite sarà quindi ottenere un supporto da parte dell’industria cinematografica nella diffusione di modelli di riferimento più paritari, soprattutto in ambiti come la ricerca, la politica o l’amministrazione.
Il motto di UN Women, non a caso, è “Empowering Women, Empowering Humanity. Picture it!”: un chiaro riferimento all’importanza della rappresentazione mediatica.
Questo tipo di iniziativa che coinvolge gli apici di Hollywood – attrici, registe, produttrici, case cinematografiche e di distribuzione – è un caso tipico di executive feminism. Non siamo di fronte ad un movimento che nasce nelle piazze, ma ad un’iniziativa che parte dai vertici di organizzazioni in cui le donne ricoprono ruoli decisionali.
La cosiddetta terza onda del femminismo è anche caratterizzata da un forte supporto maschile, basti ricordare l’iniziativa #HeForShe promossa dalle Nazioni Unite. Non si tratta perciò di lotta di genere, ma di una collaborazione che punta al miglioramento della società nel suo insieme.
L’industria cinematografica, e specialmente Hollywood, è una grande fabbrica di sogni. È importante perciò che questi sogni, invece che reiterare degli stereotipi discriminatori, siano di contributo per una più sana rappresentazione delle donne.