Ricciardo e Zoraide – Amore e guerra nell’opera meno rappresentata di Rossini
di Martino Pinali
Background storico
Come al solito, una fitta corrispondenza tra Gioachino e la madre Anna anticipa il debutto della sua quarta opera al San Carlo di Napoli; Rossini, autocelebrativo come al solito, non lesina compiacimenti e rassicurazioni nelle sue lettere: “Io sto perfettamente ed’ho scritta una bella musica”, “Questa al dire di tutti è la meglio Opera ch’io m’abbia fatta”, “L’esito della mia opere fu il più Brillante ch’io ebbi da poi che fo il Maestro”.
Fa sorridere l’entusiasmo di Rossini per un’opera, quale è il Ricciardo e Zoraide, che al giorno d’oggi è la meno rappresentata e conosciuta di tutto il suo catalogo. L’opera, su libretto di Francesco Berio di Salsa (già autore del libretto dell’Otello) debuttò il 3 Dicembre 1818 nella solita sala partenopea, ottenendo un buon successo di pubblico e una certa fama in Europa fino almeno alla metà dell’800 (per alcune rappresentazioni viennesi nel 1822 Rossini addirittura sfornerà una versione dell’opera in un unico atto). Protagonisti della prima rappresentazione, Giovanni David e Isabella Colbran nei ruoli del titolo, Andrea Nozzari nei panni del dispotico Agorante, e Rosmunda Pisaroni quale Zomira. Caduta in oblio, l’opera venne ripresa solamente negli anni ’90 del XX Secolo, con alcune rappresentazioni al Rossini Opera Festival pesarese (per la regia del compianto Luca Ronconi) e con un’incisione da parte dell’etichetta Opera Rara.
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La sua riduzione a un atto per le rappresentazioni di Vienna, nonché il soggetto prescelto dal librettista (il poema erociomico Ricciardetto di Niccolò Forteguerri), fanno traballare la classificazione dell’opera nel catalogo delle opere serie. Il “quadrangolo” amoroso Ricciardo-Zoraide-Agorante-Zomira, il poco eroico stratagemma del paladino di mascherarsi di fronte ai nemici, il rocambolesco salvataggio dei prigionieri nel finale inducono a pensare di trovarci di fronte a un’opera semiseria, quali La gazza ladra e Torvaldo e Dorliska.
La trama
Nella Nubia ai tempi delle crociate, il re Agorante (tenore) ha cacciato il principe rivale Ircano (basso) e tiene come prigioniera sua figlia, Zoraide (soprano), sperando di farne la sua favorita. Zoraide, pur non cedendo alle lusinghe di Agorante, si attira l’odio di sua moglie, Zomira (contralto). Il paladino Ricciardo (tenore), cerca di penetrare nel regno di Nubia fingendosi un ambasciatore per poter liberare l’amata Zoraide. In un susseguirsi di intrighi, incontri segreti e combattimenti, si arriva al gran finale nel quale Agorante ha catturato e condannato a morte sia Ricciardo che Ircano, e con essi ricatta Zoraide, che si vede costretta a scegliere tra il padre e l’amante, scegliendo il primo. Fortunatamente le truppe di Agorante vengono sconfitte da quelle di Ernesto (tenore), amico e commilitone di Ricciardo, e così i prigionieri vengono liberati. Magnanimamente i due amanti perdonano Agorante, e l’opera si conclude lietamente.
Zoraide, l’Ostaggio
Dal nome Despina, come era chiamata nel poema di Forteguerri (e l’associazione con l’omonimo personaggio del Così fan tutte mozartiano è immediata), al più esotico Zoraide. Da damsel in distress a ostaggio vittima ingiusta dello stalking di Agorante e del mobbing di Zomira. L’infelicità di Zoraide rievoca la mestizia della sua sorella maggiore Desdemona, e getta le basi per Elena de La donna del lago.
Su di lei si accaniscono non solo i nemici, ma anche genitore e amante. Nel Finale Secondo, di fronte alla condanna a morte di Ricciardo e Ircano, viene maledetta dal padre, che la incolpa di essere la causa della sua cattura, e, successivamente, insultata da Ricciardo, di fronte alla scelta di salvare la vita al padre invece che all’amante. Emblematica la scena IX dell’Atto II, nel quale Zoraide viene derisa e insultata da un Coro femminile fuori scena (“Il tuo pianto, i tuoi sospiri”).
La “sfortuna” di Zoraide (che non riscuoteva probabilmente nemmeno la simpatia di Rossini) consiste nel non avere anche un brano solistico tutto per sé: la sua sortita si limita a qualche pertichino nel coro “Quai grida! Qual giubilo!” con la serva Fatima. Ne segue un Duetto con Zomira (“Invan tu fingi, ingrata“) e un Terzetto a cui si aggiunge Agorante (“Cruda sorte! Oh amor tiranno”, che strizza l’occhio all’omonimo brano dell’Italiana in Algeri). L’unico brano in cui può vantare un momento importante è la sua Gran Scene nel Finale II, “Salvami il padre almeno” (con alcuna musica prelevata dal Duetto “Non arrestare il colpo” dall’Otello): ma alla povera principessa non viene nemmeno concesso un momento in cui ricevere gli applausi del pubblico, perché entra frettolosamente Zomira ad annunciare la sconfitta delle truppe di Agorante.