Pubblicato il: Ven, Ago 15th, 2014

Statuto dei lavoratori, si riaccende la polemica sull’articolo 18

di Giacomo Pellini

Si riapre la polemica relativa all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Angelino Alfano, leader del NCD e Ministro degli Interni, nei giorni scorsi ha proposto agli altri membri del governo e alla maggioranza di riscriverne le regole, definendolo un «vecchio totem degli anni ‘70». Secondo Alfano, il dibattito sull’articolo 18 dovrebbe approdare in Parlamento il 2 settembre, giorno in cui si riunirà la commissione lavoro guidata da Maurizio Sacconi (NCD) e si comincerà a prendere in esame  il DDL delega sul mercato del lavoro, parte del più ampio Jobs Act. Forza Italia si dice favorevole a tale proposta, mentre il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, si dice anch’egli favorevole a una riscrittura dell’articolo 18, ma, più cauto, propone una riforma più ampia del mercato del lavoro, senza accanimenti di natura ideologica.

Vediamo di fare chiarezza. L’articolo 18 è contenuto all’interno del più ampio Statuto dei lavoratori, legge 300 del 20 maggio 1970, (“Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”) principale fonte del diritto del lavoro italiano, dopo la Costituzione.

La sua approvazione segnò uno spartiacque per il mondo delle relazioni industriali italiane, nonché un notevole mutamento dei rapporti di forza in favore dei lavoratori. Il contesto in cui fu dibattuto in Parlamento è quello dell’autunno caldo del 1969 – culmine di una lunga stagione di lotte da parte dei lavoratori – e della strage di Piazza Fontana del 12 dicembre dello stesso anno. Il padre ispiratore di tale Statuto è Gino Giugni, docente universitario incaricato di guidare la commissione che preparò il testo.

Secondo i suoi sostenitori, la legge 300 non sarebbe altro che un’estensione degli articoli 39 e 40 della nostra Costituzione, che tutelano rispettivamente la libertà di organizzazione sindacale e il diritto di sciopero. Tali articoli furono rimasti a lungo inapplicati e lo Statuto dei lavoratori non sarebbe altro che il riconoscimento formale e sostanziale di questi diritti.

Nello specifico l’articolo 18, che è la conquista principale in fatto di diritti del lavoro, prevedeva che il licenziamento di un lavoratore subordinato fosse valido solo se per giusta causa o giustificato motivo. Nel qual caso il giudice dichiarasse illegittimo il licenziamento (o discriminatorio), la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro era automatica. Il dipendente, oltre al reintegro, aveva inoltre il diritto a un risarcimento di tipo economico, calcolato sull’ultima retribuzione, e ad un’indennità pari a 15 mensilità nel caso in cui avesse rinunciato alla reintegrazione. Tali tutele valevano solo per le aziende con più di 15 dipendenti, oppure oltre 60 dipendenti nell’intero territorio nazionale (ancora oggi è così).

Negli ultimi 10 anni l’articolo 18 è stato al centro di una vera e propria bufera politica e il mondo della politica si è diviso tra sostenitori – in primis la CGIL – e detrattori – quali Confindustria e destra politica. Secondo i sostenitori l’articolo 18 rappresenta una tutela fondamentale, senza la quale i lavoratori si troverebbero esposti alla mercé delle leggi di mercato e degli imprenditori. Secondo i detrattori, invece, l’articolo è un peso che rallenterebbe la crescita economica e l’occupazione, vincolando gli imprenditori a oneri troppo gravosi.

Già nella primavera del 2000 vi fu un referendum, promosso dai radicali e sostenuto dal centro-destra, in cui si chiedeva agli elettori di delegare al Parlamento una modifica o addirittura l’abrogazione dell’articolo 18. Il fronte del no vinse con 10 milioni di voti.

Anche verso la fine del 2001 l’allora governo Berlusconi, con Tremonti come Ministro dell’Economia e Maroni come Ministro del Lavoro, propose una Legge delega per riformare l’articolo 18. La risposta dei sindacati fu molto dura, soprattutto quella della CGIL: l’allora Segretario Cofferati indisse una manifestazione al Circo Massimo in difesa del diritto del lavoro, che vide la partecipazione di oltre 3 milioni di persone, una delle più numerose manifestazioni degli ultimi decenni. Nel 2003 Rifondazione Comunista promosse un altro referendum sull’articolo 18, stavolta per ampliarne le tutele anche verso le aziende con meno di 15 dipendenti. Il quorum allora non fu raggiunto.

La recente Riforma del lavoro di Elsa Fornero del 2012 ha in parte cambiato i contenuti dell’articolo 18, riformando il legame e l’automatismo tra la natura del licenziamento ed il reintegro. Secondo tale riforma la natura del licenziamento può essere di tre tipi: discriminatoria, economica e disciplinare. L’automatismo del reintegro ricorre solo in caso di licenziamento discriminatorio – fatto grave, ma molto difficile da provare in sede giudiziaria. Per quanto riguarda il licenziamento di tipo economico – dovuto all’andamento economico dell’azienda all’interno del mercato – il reintegro è previsto solo nel caso in cui il fatto non sussista – ossia quando il licenziamento non è legato a cause di natura economica. Se il giudice stabilisce l’inesistenza dei presupposti obbliga l’imprenditore a un risarcimento che va dai 12 ai 24 mesi. Per quanto riguarda il licenziamento di natura disciplinare, esso funziona come quello economico nel caso di insussistenza. Se viene accertato che il dipendente non ha commesso il fatto il giudice potrà disporre sia del reintegro che dell’indennità pari all’ultima retribuzione.

Si tratta di un quadro molto complicato, aggravato da una polarizzazione che difficilmente porterà a dei compromessi tra le forze politiche. Ma soprattutto un accanimento, visto il sempre più scarso ricorso a contratti di lavoro di tipo dipendente – soprattutto per i giovani e le donne – e la giungla contrattuale italiana derivante dal Pacchetto Treu del 1997 e dalla Legge Biagi del 2003, che introducono nuove forme contrattuali, che perlopiù diminuiscono le tutele di lavoratore (come il contratto a progetto) e aumentano la precarietà del mondo del lavoro.