Giovanni Asmundo, una Sicilia metaforica, poetica e nostalgica
di Alessandro Pagano Dritto
A Schio, paese del Vicentino dove si trova quando concede questa intervista, Giovanni Asmundo sta promuovendo un progetto che abbina fotografia e poesia, Peripli. Topografia di uno smarrimento, insieme al fotografo suo amico Daniele D’Antoni. In un antico edificio in una via del centro i due hanno a disposizione una stanza dalle pareti bianche, piccola, semplice, modesta. I visitatori fanno il giro del perimetro sussurrando tra sè e sè i versi, percorrendo con lo sguardo le fotografie, due o tre volte. Qualcuno entrando saluta il poeta e un giornalista che chiacchierano seduti quasi al centro, vicino ad un proiettore che stende altre fotografie sul muro bianco. Una ragazza si siede anche lei ad ascoltare.
Come nasce Giovanni Asmundo poeta?
Poeta o scrittore? Perché come scrittore nel senso di scrivente Giovanni Asmundo nasce nello stesso momento in cui nasce come lettore, quindi appena inizia a leggere: ho scritto per la prima volta quando avevo cinque anni, ho iniziato a leggere all’asilo coi libricini per bambini che mi compravano i miei. Ho iniziato a scrivere perché mi piaceva raccontare, mi è sempre piaciuto raccontare, anzi si può dire che io scrivo per un preciso motivo: raccontare storie, raccontare atmosfere, condividerle con gli altri, anche se poi in realtà tendo a non fare leggere quello che scrivo. La prima cosa che ho scritto credo sia stata una poesia divertente, molto fantasiosa, una cosa da bambini.
Avendo iniziato a scrivere prestissimo, c’è da immaginare che la Sua scrittura si sia molto diversificata nel tempo.
Una caratteristica che ho sempre avuto sin da piccolo è stata quella di cercare di scrivere cose multisensoriali, che implicassero i vari sensi: quando scrivo, cerco di coinvolgere i sensi di chi legge e anche di mescolare il cinema, il teatro, di fare richiami a cose molto antiche ma anche molto moderne, di contaminare. Ho cominciato scrivendo racconti, tantissimi racconti, poi anche due romanzi gialli di cui uno mai finito. Quindi ho puntato sempre di più sulla sintesi, a scrivere piccoli racconti senza inizio nè conclusione con trame minime che raccontassero molto le atmosfere: frammenti, insomma, sono andato sempre più verso il frammento. L’ultima cosa che ho scritto in quella che definisco la mia vita precedente, prima cioè di partire, è stato un pezzo in cui si diceva dell’impossibilità di scrivere perché tutto era troppo frammentario. Poi ho avuto un periodo di distensione in cui, pur continuando a scrivere, ho lasciato un po’ da parte e infine, cinque o sei anni fa, questo boom in cui ho ricominciato a scrivere e riempire i taccuini, accumulare materiale, fino a che nel 2010 non mi è venuta l’idea di Peripli.
Peripli, appunto.Come nasce il progetto Peripli?
Il primo nucleo di Peripli nasce da un retroterra di scritti, taccuini, poesie preesistenti e indipendenti rispetto al progetto, che poi sono diventati materiali da cui trarre immagini e spunti. A un certo punto mi è venuta l’idea, era l’autunno del 2010, di raccogliere tutti questi frammenti e raccontare un viaggio metaforico – appunto, un periplo – che facesse di questi frammenti una cosa unitaria; raccontare un viaggio immaginario intorno a quest’isola, che poi sarebbe stata la Sicilia, che volevo fosse una metafora, una specie di piccola peregrinazione odisseica: l’Odissea infatti è sempre stata, sin da bambino, uno degli scritti che mi ha colpito di più. La cosa è nata inizialmente per me come narrazione di atmosfere per cercare di raccontare luoghi, un luogo dopo l’altro con la loro anima, la loro storia, la loro stratificazione. Questo veniva di volta in volta fatto tramite un evento storico di uno specifico luogo, un’atmosfera, una suggestione, un rimando letterario, un ricordo personale, l’invenzione di un personaggio o qualcosa di mitologico. Piano piano la cosa è diventata sempre di più una riflessione sullo smarrimento di questi luoghi, dell’identità che li caratterizza.
Nella mostra itinerante che porta il nome del progetto, però, le poesie sono sempre accompagnate da fotografie.
Sì. Man mano il mio lavoro si è avvicinato infatti a quello del fotografo e mio amico Daniele D’Antoni, che viaggiava nella stessa direzione concentrandosi sempre più sul reportage. Per Peripli però il nucleo di partenza sono state le poesie. Inizialmente si è trattato soprattutto di foto già scattate, già esistenti, che andassero bene per i testi e per circa un anno abbiamo lavorato su questi abbinamenti e sul dialogo tra testi e fotografie. L’idea era quella di mantenere la struttura di un racconto: un prologo, una parodo, degli stasimi, una struttura che ricordasse la tragedia greca e parlasse di smarrimenti andando dal collettivo all’individuale. Man mano che invece il progetto è andato avanti, abbiamo interconnesso molto di più le scelte reciproche e quindi le fotografie nascevano dalle poesie o viceversa. Per esempio per la foto sulla festa di S. Agata abbiamo lavorato così: lui mi ha descritto le scene, le sensazioni che voleva rendere attraverso quella foto e io ho cercato di renderle con la poesia, che ho riscritto cinque volte. Poi insieme abbiamo scelto la foto da abbinare tra alcune che Daniele considerava le più papabili e io ancora una volta ho ricalibrato la poesia modificando la strofa finale su quella specifica foto che era stata scelta.
Come è divisa la mostra?
C’è un nucleo centrale attorno al quale di volta in volta cambia qualcosa. Il nucleo centrale è quello dei Peripli, che si suddivide in tre capitoli ognuno ispirato a una costa della Sicilia: capitolo ionico, tirrenico e ferdinandeo. A ogni capitolo corrisponde una tematica. Quello ionico è quello dell’origine, del viaggio, dell’arrivo dei greci da oriente: tutte tematiche molto collettive alle quali corrispondono quindi poesie corali, scritte al plurale. Quello tirrenico riguarda invece la nostalgia e raccoglie poesie più soggettive, più individuali. L’ultima parte è invece quella ferdinandea ed è incentrata sulla storia dell’isola venuta su dal mare e che dopo pochi mesi si è inabissata per l’erosione; ma si parla anche degli specchi ustori, di Edipo, di Archimede. La poesia centrale della sezione ferdinandea è Lampedusa, 3 ottobre 2013 ed è la sezione dove lo smarrimento si fa sempre più definitivo fino alla conclusione con Esodo: i Ciclopi, cioè, che abbandonano l’isola in un momento senza tempo che precede il periodo storico.
Perché proprio questa conclusione?
È, questo dei Ciclopi, un episodio che ho pensato collocabile tra la fine dell’epoca dei miti e l’inizio del tempo storico o in un futuro post apocalittico – lascio la scelta a chi legge – ma in ogni caso è la conclusione che chiude il cerchio. Sin dal titolo, Esodo appunto, è pensato come parte conclusiva di una struttura paragonabile a quella della tragedia greca, col prologo e la parodo. In questo caso il prologo è una voce esterna, una voce in terza persona che racconta di questo coreuta che si ritrova sperduto lontano dagli ulivi, dai teatri simboli di civiltà: è lontano da tutto, perchè tutto è risucchiato via, è scomparso. Il prologo si conclude con la frase «Dovevamo recitare uno spettacolo / ma abbiamo dimenticato di imparare la parte»: una presa d’atto, cioè, che per colpa, per negligenza, per indifferenza o anche solo per superficialità, di tutto quello che si leggerà dopo nella mostra noi siamo in qualche modo responsabili. È insomma un’ammissione di responsabilità, anche personale.
Come possiamo intendere il viaggio di Peripli?
È un viaggio intorno alla Sicilia, ma in realtà è metaforico. La Sicilia è lo spunto, ma i peripli via mare potrebbero essere astratti dal contesto, perché alcune tematiche sono generali e alcune poesie potrebbero essere ambientate ovunque. Prima di Peripli, alcune cose nascevano da sensazioni che diventavano sintesi: erano generali e sintetiche. Se nella didascalia della foto non ci fosse scritto a quale posto ci si riferisce in particolare, un verso come «e alla sera stavamo alla finestra vuota / mangiando pane e olive» potrebbe essere riferito alla Sicilia così come alla Puglia o alla Liguria, o alla Spagna, alla Grecia, alla Tunisia o alla Turchia. Anche le foto, in realtà, abbiamo cercato di renderle quanto più astratte possibile dai contesti specifici, più metaforiche, magari facendo loro raccontare più un dettaglio che un posto preciso.
Se Lei dovesse allestire un’altra mostra diversa da Peripli utilizzando però ancora una volta una o più di queste poesie, le cambierebbe o le riproporrebbe uguali?
Dipende, tante le riproporrei uguali. Dipende da che poesia è, da quanto sono affezionato alla sua forma compiuta: ce ne sono alcune che non voglio toccare più, anche se magari la loro forma compiuta è arrivata dopo tre stesure. Anche se poi non dovessero piacermi più per come sono state scritte, voglio comunque che restino specchio di un momento, il momento in cui mi sono andate bene così com’erano senza preoccupazioni per come invece mi piacerebbe scriverle adesso. Alcune cose sono work in progress, come lo è la mostra stessa, altre no: piuttosto che cambiarle, riprenderei il tema riscrivendo completamente la poesia, scrivendone direttamente un’altra. Non tutte le poesie che scrivo, alla fine decido di utilizzarle; molte le scarto e le tengo come memoria, come archivio.
Di alcune di queste poesie Lei dà anche pubblica lettura.
Sì, mi piace il contatto con le persone, leggere delle cose per poterle condividere e poter scambiare delle sensazioni con gli altri. Ricordo a Caorle, per esempio, vicino Venezia: c’era un palchetto in riva al mare in cui ognuno aveva la possibilità di leggere liberamente e io ho letto tre poesie di Peripli. È stato molto bello, quasi un restituire al mare, e le persone che c’erano hanno gradito. C’è da dire anche che non so mai come pormi di fronte a queste cose, non so mai fino a quanto partecipare al mondo dei circoli, dei readings, delle poetry slams, delle improvvisazioni poetiche. Di certo mi piace andarmene a leggere in qualche posto tranquillo e godermi l’acqua, l’atmosfera, gli elementi: mettermi a bordo di un canale e leggere mentre qualcuno suona qualcosa: è così che sono nate, di sabato a Forte Marghera, le prove per le mie letture.
Nella poesia Dimentichiamo le lampare si parla di una memoria perduta, in un’altra – Una dedica – si legge «dimenticate storie e filastrocche», Lei usa poi spesso l’espressione «smarrimento»: sembra di percepire un senso di distanza, di allontanamento. La Sicilia è quindi anche una terra da cui ci si allontana?
Sì. Dalla Sicilia ci si allontana da molti punti di vista; sia quando non ci si trova lì fisicamente sia quando ci si vive. Le due poesie citate sono una molto collettiva e una invece molto personale, una dedica che feci a mio nonno proprio in occasione della prima mostra che abbiamo allestito. Nella prima, quella corale, quel dimentichiamo può essere inteso sia come un imperativo sia, al tempo stesso, come un presente sofferto: è un dimentichiamo che sta a metà tra un dato di fatto e una provocazione, è l’idea che noi ci stiamo distaccando da tutto, stiamo perdendo tutto. Noi abbiamo vissuto tutta la vita in un mondo in dissolvenza. Cito non a caso un’espressione del cineasta Vittorio De Seta, perchè è riuscito a filmare questo mondo con sei cortometraggi documentari, ciascuno dei quali è un ritratto di alcune tradizione sicule, come la pesca del pescespada, la Pasqua in Sicilia, la raccolta del grano. De Seta riuscì a raccontare tutte queste cose ritraendole appena prima che scomparissero, che si dissolvessero col boom economico. Noi ovviamente non siamo passatisti e nostalgici; siamo d’accordo sul fatto che è stato molto meglio avere la lavatrice rispetto al pestare i panni stesi sul greto di un fiume o in riva al mare, ma, nonostante questo, è vero che quel tipo di mondo, quel tipo di gesti che questo mondo si portava dietro e che creavano un senso di comunità, quei canti, quelle ritualità, quell’equilibrio naturale, quel senso di comunità e bene comune che ne derivava, si sono persi completamente.
È a questi gesti che si riferisce il verso della poesia Penelope, «a nulla vale ripassare a memoria ogni gesto»?
Sì, anche. Ovviamente quella è una metafora, non si tratta solo di Penelope; potrebbe essere qualsiasi donna mediterranea che attende il marito in mare o una vedova di mafia. Penelope è in quella poesia il simbolo senza tempo della donna che attende e c’è un riferimento anche a un libro che amo tantissimo, Le vecchie e il mare di Yannis Ritsos. Amo questo libro anche per la sua struttura di racconto corale: sono sette donne di tutte le generazioni che attendono gli uomini. Il concetto di base è proprio il distacco da tutte queste cose, la perdita di tutto questo mondo, l’oblio di tutte queste cose belle che è stato un peccato smarrire dal punto di vista delle tradizioni, del senso del bene comune. Il bene comune è un punto fondamentale: c’era una comunità che è finita con l’arrivo del progresso, o meglio – per citare ancora una volta De Seta – di uno «sviluppo senza progresso». Poi c’è anche una dimensione personale nella mia poesia. In Dimentichiamo le lampare, per esempio, quando scrivo «le dita che stendono i bordi / dei pomodori accartocciati», mi ricordo delle cose con cui sono cresciuto, di mio nonno che mi insegnava come fare i pomodori secchi cotti al sole, come stenderli nei giorni, mano mano, in maniera tale che non si ammuffissero; sono le cose che ho nelle narici e sotto le dita quando scrivo. Al di là degli intenti sociali, scrivo insomma anche per omaggiare le persone care.
Cos’è per Lei la Sicilia?
La Sicilia per me è una cosa complicata. È un luogo metaforico e stratificato che riesce a racchiudere in sé una varietà incredibile concentrata in pochissimo spazio; e questo la rende un viaggio mentale. Volendo forse esagerare, si potrebbe dire che è una metafora della condizione umana. Di sicuro ha un suo modo di pensare e di pensarsi che è molto connotato. Si pensi, già nei pensatori antichi, al pessimismo, al relativismo, a personaggi come Empedocle o Gorgia: sono convinto che solo lì si potesse arrivare a certe conclusioni, perché c’è questa bellezza incredibile e al tempo stesso la crudeltà del paesaggio, della terra, del mare, generosi al massimo ma anche molto crudeli, come diceva Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Cosa ritiene possa esserci, nella Sua produzione letteraria sia poetica che narrativa, di irrimediabilmente siculo?
Forse più di un elemento. Il gusto del racconto teatrale, per esempio, o la presenza forte del mito. Irrimediabilmente siculo potrebbe essere il legame forte, quasi l’attaccamento ai luoghi d’origine odiati ed amati al tempo stesso.
A proposito di luoghi, nel Saluto dell’ignoto parolaio si legge di Palermo: «Questa città mi romperà la testa». In gergo siculo una persona che rompe la testa è una persona seccante, fastidiosa, che dà noia. Che rapporto ha con la Sua città natale?
Di amore e odio. «Mi romperà la testa», però, non volevo intenderlo con questa sfumatura; intendevo dire piuttosto che Palermo è come un rompicapo, un cubo di Rubrik. Palermo «mi romperà la testa», ma io rimango, a costo di rompermela rimango lì. Il centro della poesia è proprio la permanenza, quel restare nonostante Palermo sia una «città di spigoli e smussi / di cocente illusione / di bocca secca»: è proprio questo quello che provo tornando a casa. Palermo è una città che mi fa innervosire perché le voglio bene; mi dà fastidio la stagnazione, l’incuria, il fatto che a volte i palermitani stessi sembrino non amarla.
Cosa ama invece Lei di Palermo?
Tantissimo della sua anima, delle sue strade, dei suoi vicoli, del suo essere multiculturale, del suo essere stratificata all’eccesso. Non conosco un’altra città dove c’è una tale compresenza di stratificazioni diverse e questo si riflette nell’anima della città. Ma anche questo i palermitani lo stanno dimenticando, anche loro sempre più consumati dall’abbruttimento degli spazi e delle periferie. I registi Daniele Ciprì e Franco Manesco sono esagerati, ma credo siano provocatori in senso molto interessante. Anzi, da questo punto di vista alcuni loro film sono geniali: penso a Enzo, domani a Palermo! o Il ritorno di Cagliostro. Loro rappresentano una Palermo apocalittica tra le macerie – che sono tutte vere e risalgono alla Seconda guerra mondiale – con personaggi alla Victor Hugo, oppure un po’ surrealisti, magari una Palermo invasa dai cani; tutte cose portate all’eccesso che però in qualche modo sono vere. Esiste a Palermo un’apocalisse che si vive tutti i giorni al di là delle scintillanti vetrine, della pomposità barocca; Palermo è sempre stata la città di grande facciata barocca – damasco, oro – e alle spalle grande miseria. È una città contraddittoria come poche, bisogna forse andare a Nuova Delhi per trovare oggi contraddizioni simili; eppure ce l’abbiamo dietro casa. Palermo è un’isola, un pianeta a parte anche rispetto alla Sicilia, un mondo particolare. Di Palermo amo la notte, i profumi di gelsomini, di zagara, il ricordo dell’acqua che scorre, le balate bianche delle strade selciate quando sotto la pioggia sembrano dei ruscelli e sembra di essere nella Palermo punica. Amo la topografia, quando si cammina per le stradine e si immagina, si vede con la mente tutto quello che c’era, come la città si è modificata, per ogni periodo storico si possono immaginare una serie di cose fantastiche: uno può perdersi a camminare immaginando gli agrumeti, gli scintillii degli zampilli d’acqua, le fontane dei cortili, il profumo dei giardini arabi. Sono piccole tracce nascoste nelle pieghe della città, nelle sue pietre, che bisogna saper cogliere. Io amo tanto Palermo, amo tantissimo il porto della Cala coi suoi gabbiani e i suoi pescherecci ormai sempre più nascosti in un angolo; hanno tolto tutto quel bellissimo paesaggio di invasature che servivano per fare il carenaggio delle barche, hanno tolto tutto facendo un restyling alla moda. Ecco, questo, parlare di queste cose, è per noi Peripli. Perché non sempre il nuovo è meglio del vecchio, perchè è vero che bisogna sistemare, rinnovare, cambiare, ma bisognerebbe farlo nei modi giusti senza perdere del tutto l’anima dei luoghi.
Ma gli ultimi versi sembrano positivi: «Ogni giorno a Palermo è un giungere / e un levare / Una speranza di scoperte e un lascito».
Non so in realtà se siano versi così positivi. È un finale aperto: la continua speranza che le cose cambino, migliorino, di trovare qualcosa di meglio ogni volta che torno, ogni volta che ci vado, che cerco di saziarmene camminando per le strade fino allo sfinimento, quando fino alle quattro di notte con Daniele andiamo su e giù come disperati – nel senso buono del termine – per cercare di assorbire il più possibile. Ecco, è quel tipo di speranza, l’imprimere positività nelle cose a furia di consumarle. Ma è al tempo stesso «un lascito», perché so che non vedrò io il cambiamento, forse non lo vedranno nemmeno i miei figli, sarà un cambiamento a lungo termine: si lascia a chi verrà tutto il proprio impegno sperando che le cose che si riescono a fare verranno continuate. Io vedo tanto il limite personale, vedo che si arriva fino a dove si riesce. In Sicilia abbiamo avuto un numero altissimo di esempi di persone straordinarie, che non sono soltanto i morti ammazzati. Grandi esempi di persone straordinarie che hanno vissuto la loro vita per far cambiare le cose da molti punti di vista: culturale, sociale… E vedo che si arriva fino a dove si arriva fisicamente, dopo di che bisogna passare il testimone.
A chi sta pensando?
Alla mia bisnonna, per esempio, che mi recitava moltissime filastrocche che non ho avuto l’occasione di trascrivere perché ero troppo piccolo quando lei è mancata; questa è una cosa che banalmente mi ha fatto cominciare Peripli, per dire. Nei gesti di cui parlavamo prima – le donne al fiume, per esempio – si incontravano tra loro generazioni di persone: c’erano la nonna, la figlia, la nipote. Adesso questo manca e se la generazione dei nostri genitori non ci ha trasmesso certe cose perché con queste cose ha voluto rompere; persino questo insieme ad altro come il boom economico, la Seconda guerra mondiale e le bombe, ha contribuito a far perdere tantissime conoscenze, ricchezze, pluralità. Quindi, a chi penso? Penso a persone care che non ci sono più, penso a grandissimi esempi di persone che hanno lottato per tutta la vita fino agli estremi sacrifici, come Carlo Alberto Dalla Chiesa, Placido Rizzotto, don Pino Puglisi, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che per noi sono un faro; io ricordo bene tutto quello che è successo; c’ero, ero là. Penso a chi dà tutta la vita combatte tutto ciò che è negativo, a tutte quelle persone buone, quelle persone d’oro che ci sono e che mandano avanti tutto, penso alle persone che danno la vita vivendo, che fanno. Penso ai grandi esempi ma anche a persone che non vengono mai ricordate, al matto del paese che dirige un’orchestra inesistente con l’Etna sullo sfondo, a tutte quelle persone che rappresentano ancora frammenti di cose contro l’oblio che avanza in tutto il mondo, a questi piccoli frammenti di bellezza. Ecco, penso a tutto questo.
C’è, oltre Palermo, qualche altro luogo che sente particolarmente Suo?
Sicuramente Venezia, ne sono profondamente innamorato. Di Venezia ho scritto in alcune poesie che non fanno parte di questa mostra. Venezia è un posto che amo tantissimo e sento come casa. Per il resto sento mia la Sicilia. Tutta, perché è un’entità unica. Mi ha agevolato il fatto che i miei siano messinesi, quindi ho sempre fatto l’altalena tra la Sicilia orientale e occidentale senza sentirmi troppo radicato in un solo luogo, sentendomi invece a casa in più posti; e questo è sempre stato un grande vantaggio. Potrei citare Tindari, dove hanno la casa i miei nonni e dove sono cresciuto passando tutte le estati. Posti, questi, che hanno fatto da sfondo a moltissime mie poesie, a molti miei racconti e quindi posti per i quali è più grande la nostalgia. Si riferisce a questi posti l’unica foto che ho scattato io per questa mostra, quella del vecchietto che corre sulla spiaggia con le isole Eolie come sfondo. Anche Messina, o Siracusa, sono posti che mi sono molto cari. Del Siracusano sento poi molto la nostalgia perché sono molti anni che non riesco ad andare ed è legato a ricordi bellissimi: i viaggi al tempo del liceo, per esempio, quando a Siracusa andavamo a vedere le tragedie e nascevano tutti i riferimenti alle tragedie greche che oggi si trovano nelle mie poesie.
Nel Suo profilo autobiografico Lei si definisce «nostalgico di professione». Cos’è la nostalgia?
Andando alla radice della parola, non è che il «languore del ritorno». Ecco, più che tradurlo come «dolore del ritorno», preferisco usare il termine «languore». È qualcosa di molto viscerale. Ne parlo in una poesia incentrata sul personaggio di Ulisse – Avvinghiato a uno scoglio di zattera – che potrebbe poi essere un semplice pescatore, che deriva da una terza rielaborazione di un testo che parlava effettivamente di Ulisse: nella mostra questo testo dialoga con un altro che parla delle Sirene – Di porto in porto e frammento in frammento – è un dialogo tra un Ulisse quasi joyciano, perché è tutto nella sua mente, e delle Sirene ormai disciolte – «il loro adulare non è più che pallida schiuma» – perchè lo smarrimento è ormai avvenuto e del mito non rimane più che «pallida schiuma». I due testi infatti sono esposti, non a caso, vicini.
La Sua è una poetica anche personale, che trae spunto da vicende e ricordi personali. Anche l’aspetto della lontananza dalla Sicilia deriva da qualcosa di autobiografico, dalla vita di una persona che, per esempio, si è dovuta spostare a Venezia per motivi di studio?
Sì, chiaro. Anche io sento a livello personale la nostalgia e la mancanza. C’è una poesia bellissima di Ibn Hamdis, che era un poeta arabo siculo del 1100, nato a Noto e morto poi a Maiorca, in cui il poeta descrive questa nostalgia dell’esule che vorrebbe riposare nelle terre in cui riposano le ossa dei suoi padri e tutto lo chiama alla sua terra natia. Anche io sono andato via e non è tanto facile per me, in molte occasioni, essere via, ma cerco di essere presente lo stesso, anche se non fisicamente. Molte delle cose che ho scritto sono state scritte lì, altre invece qui basandomi sugli appunti o immergendomi con la mente nei luoghi che ho sotto pelle, in cui sono nato e cresciuto e con i quali ho un legame fortissimo. La lontananza non è quindi per me un distacco, anche se un certo distacco, una certa lontananza le ho sempre vissute persino stando lì, in Sicilia: mi sono sempre sentito un estraneo, per certi versi. Venendo qui ho potuto guardare da fuori, ma non è per me stata una novità assoluta, perchè i miei mi hanno sempre dato l’opportunità di viaggiare molto e ho quindi sempre potuto avere un termine di paragone. Un problema della Sicilia è proprio questo, che ha una fortissima insularità, è un piccolo continente in sè dove alcuni non hanno nemmeno lo stimolo per vedere cosa c’è fuori e limitano il proprio orizzonte a fino a dove lo sguardo può arrivare. Questo è un problema, perchè se non si hanno termini di paragone, si rimane dove si è.
Lei scrive sia poesia che prosa. Che rapporto sente tra questi due tipi di scrittura?
Cerco di lavorare sull’integrazione, di individuare il punto in cui si incontrano la prosa poetica ricca e la poesia più narrativa. Per esempio, i primi versi di Esodo – «Quando i Ciclopi lasciarono l’isola / i piedi toccarono l’acqua e avanzarono» – sono poesia, ma sono in realtà un po’ al limite tra poesia e racconto narrativo. Di fondo c’è sempre l’idea di raccontare cose, un’idea che ho ripreso anche da Ritsos, che mi piace tanto: lui è narrativo, seppure per immagini racconta delle cose e anche a me piace far sì che ogni mia poesia sia anche narrativa, racconti qualcosa. In questo senso le mie poesie e i miei racconti si influenzano a vicenda e quando racconto cerco di condensare tanto a livello di stile, di ricerca, di modo di scrivere, la prosa sulla resa delle immagini.
Utilizzare la poesia piuttosto che la prosa o viceversa, è in Lei di volta in volta una scelta meditata, consapevole?
Ultimamente sto scrivendo molto in poesia, anche in funzione di Peripli. Spesso però le poesie nascono da testi appuntati nei miei taccuini e quindi la prosa viene prima della poesia. Mi capita di scrivere molto, per esempio durante i viaggi, di appuntare concetti, idee, parole e poi, quando mi riaffiorano, di pescarli e rielaborarli per qualche poesia. Per esempio l’immagine che si ritrova ancora in Dimentichiamo le lampare, quella della «rosa sanguigna / sul muro di fronte» deriva da un mio racconto di dieci anni fa, un’immagine che mi era cara e mi era tanto in mente, un ricordo netto: una volta mi trovavo su un terrazzino a Stromboli, in una casa mediterranea con le rose di fronte, tutti i giorni vedevo questa rosa e in un periodo in cui scrivevo prosa ho scritto anche quel racconto. Era un’atmosfera, quella, che amo ricordare e quindi, scrivendo poi questa poesia, ho ripescato anche quell’immagine; mi capita spesso di ripescare anche dai ricordi suggestioni di momenti vissuti o che vivo ancora. Ecco quindi, tendo a scrivere prima in prosa e poi in poesia, ma scrivere in prosa densa già nell’ottica della poesia. Così sono nate anche cinque poesie su Lampedusa, che ho scritto negli ultimi mesi tutte in occasione dei naufragi che ci sono stati: sono tutte venute da una frase o da un’idea singola, anche da una scena quasi cinematografica, e da lì veniva fuori tutto il resto. In una di queste poesie ho persino immaginato la scena surreale dell’incontro di una nave greca con un barcone di migranti: cosa succederebbe se fuori dal tempo questi due fantasmi si incontrassero sull’acqua in un momento imprecisato di bonaccia, in questo Mediterraneo così denso di storie? Io non spiego ovviamente tutto queste cose che sto dicendo, lavoro per sottrazione, ma mi piace che ci sia un mondo dietro le cose che racconto.
A proposito di migrazione, già in Peripli Lei ha dedicato una poesia a Lampedusa. Che rapporto ha con quest’isola spesso al centro delle cronache?
Quando il 3 ottobre 2013 vi fu il naufragio con un altissimo numero di vittime, scrissi quella poesia, che tenemmo per lungo tempo come poesia di copertina per la mostra. Sento Lampedusa molto vicina e non sopporto che le notizie che la riguardano siano relegate a semplici notizie da tg, come spesso invece succede. È un problema grosso che bisogna affrontare, perchè la gente continua a morirci; è questo il punto e non si può rimanere indifferenti. Certo, è un problema più grande di noi italiani, più grande dei lampedusani, dei pugliesi, più grande del Friuli e del Veneto che accolgono da Est, ma è un problema che in qualche modo va affrontato. Lampedusa è uno dei luoghi simbolo di questo problema, ma per noi che ne parliamo rimane un pretesto: potremmo parlare anche di Porto Empedocle, è un simbolo di tutto ciò che riguarda la tratta d’uomini, i naufragi, gli sbarchi. Aver esposto quella poesia con quella foto del museo degli ex voto dei Santi Alfio, Cirino e Filadelfio è una provocazione e per me la poesia Lampedusa, 3 ottobre 2013, stride, è una delle più dure; tuttora stride molto anche leggerla, a volte la salto. Dal punto di vista stilistico nella poesia c’è quel lavoro di sottrazione di cui si parlava prima: «Se solo fosse statua di fulgido bronzo / come quel giovinetto danzante / tutto quello che viene ripescato / in questo tratto di mare accecante». Il riferimento che faccio è al Satiro danzante, una statua greca meravigliosa, forse di mano esemplare, che un peschereccio ha ripescato dal mare: se solo fosse tutto questo quello che viene ripescato dal mare, invece che i corpi morti! Anche in questo caso, chi sa dei migranti può recuperare quel riferimento; lascio intendere, faccio un lavoro di sottrazione forse più che in tutte le altre mie poesie. La poesia, come poi tutta la mostra, dovrebbe stimolare la persona, vorremmo che entrambe fossero attive, uno scambio con la gente che viene. Vorremmo suggerire delle tematiche attraverso l’accostamento, ma in modo delicato, senza agire d’assalto.
Quali sono gli scrittori – poeti o prosatori – che sente particolarmente Suoi?
Ho già citato Ritsos, Yannis Ritsos: mi piace tantissimo per le atmosfere, per il modo di raccontare, per i sentimenti umani che ci sono dentro. Con lui anche molti altri poeti greci contemporanei, ma anche tragedie greche come l’Antigone di Sofocle, che ho letto e riletto traducendone alcuni pezzi; o l’Odissea. In generale mi piace molto la cultura greca, sia antica che moderna. La scuola poetica siciliana, poi, con Rinaldo D’Aquino, Cielo D’Alcamo; i poeti arabi siciliani come Ibn Hamdis che ho già citato. Andando sul contemporaneo, tra i siciliani Leonardo Sciascia: trovo Il giorno della civetta un libro geniale per la capacità divulgativa e la bravura narrativa, perché riesce a far capire in modo semplice tante cose anche a chi non è nato in Sicilia. Oltre a Sciascia, anche Gesualdo Bufalino per la prosa ricca, barocca, perché è uno stimolo interessante anche se a volte forse esagera. Per il lavoro sulla lingua, Vincenzo Consolo. E poi Giovanni Verga, Luigi Pirandello. Tra gli stranieri, come poesia potrei dire Charles Baudelaire o William Blake – che ho quasi imparato a memoria – o La tempesta di William Shakespeare, come prosa Daniel Pennac. Ma direi che in generale tra Pirandello per la prosa e Ritsos per la poesia ci sono i miei estremi.
C’è anche molto di letteratura classica nelle Sue poesie e nella mostra: a partire dal titolo, Peripli, per arrivare alle varie citazioni mitologiche.
Assolutamente, il titolo stesso è greco. Per le citazioni mitologiche, però, credo che il discorso sia diverso. Lì ho cercato di prendere molto dal sostrato popolare, culturale, mitologico tipicamente siculo. Quando parlo di Ciclopi, per esempio, mi rifaccio al sostrato tipico del Catanese, Demetra e Core provengono dalla zona di Enna, Scilla e Cariddi – in una poesia non esposta – appartengono allo Stretto di Messina. Cultura greca, quindi, ma più precisamente anche magno greca e siciliota: ci sono alcuni riferimenti anche a Empedocle, a Edipo, ad Archimede, a Dionisio di Siracusa, o, quando in Parodo scrivo «il ronzio dell’ape insistente / nella calura che schiaccia», è un riferimento al siracusano Teocrito. Di solito sono comunque riferimenti nascosti, che non voglio rendere troppo espliciti perché non voglio ne risulti una cosa troppo letteraria o troppo verbosa. Lascio al lettore di coglierli o meno.
Che rapporto c’è tra mitologia e realtà nelle Sue poesie?
Cerco di considerare il mito da due punti di vista: come ricchezza e patrimonio di luoghi e comunità e come continuità che in Sicilia e nei luoghi della Magna Grecia il mito ha vissuto per tanto tempo più che in altri posti, per cui spesso quello che una volta era il mito ora è sopravvissuto nella forma della favola per bambini della sera, mescolandosi con la sua stessa rielaborazione medievale. Per esempio, Colapesce: lì il mito greco delle Sirene si mescola con la figura medievale dell’uomo pesce e crea questa continuità che rende il mito noto e raccontato ancora nell’Ottocento e nel Novecento, arricchendolo di volta in volta. Ecco, questo è un aspetto molto importante del rapporto tra mito e realtà che è continuato fino all’epoca dei nostri nonni e che oggi si sta perdendo. Io sento il mito come una materia viva, non come il mito greco lontano e distante nel tempo: una materia viva da cui pescare. Io vorrei inserirmi in questo processo, in questa tradizione di recupero del mito; che è praticato da molti anche adesso, lo è stato per tutto il Novecento. Personalmente apprezzo molto Louis Borges. Borges prende per esempio il mito del Minotauro, di Teseo, gli dà il nome di Asterione, lo rende una persona umana e diversa, che non ha mai visto nessuno, ha una testa di toro, vive in un palazzo dalle tante stanze e aspetta il suo liberatore e amico; quando questi arriva e lo uccide, lui non capisce perché tutto questo stia succedendo e pensa che però, almeno, raggiungerà il suo doppio. Quella che Borges fa è una rielaborazione in chiave umana, personale, una manipolazione attiva e non una rielaborazione letteraria. Nel riprendere i miti io cerco di inventarmi quello che c’era dietro, quello che c’era di contorno, come sarebbe potuta continuare la storia, rielaboro il mito come una manipolazione attiva, nutrendolo anche con cose nuove; non esiste da nessuna parte, ad esempio, che i Ciclopi abbandonino l’isola con le zattere, me lo sono inventato io perchè volevo immaginarmi il prima e il dopo di una situazione apocalittica. Cerco insomma di lavorare sulle sfumature, al tempo stesso facendo comunque riferimento al mito che ci è stato tramandato. Senza dimenticare che il mito ha dalla sua origine un valore anche educativo, è nei miei testi metafora di tutto quello che scompare – del patrimonio, della ricchezza, della pluralità -, metafora al tempo stesso individuale e collettiva.
Parlando Lei cita, oltre a poeti e prosatori, anche alcuni registi, una delle fotografie della mostra è Sua: non solo scrittura, quindi, quella alla quale Lei attinge. Che rapporto ha con le altre forme dell’arte?
Mi interessa tutto. Mi interessa molto l’archeologia, per esempio, il teatro, il cinema sperimentale al quale sono approdato negli ultimi anni dopo una lunga passione per il cinema degli anni Sessanta, soprattutto quello francese come Jean-Luc Godard, Eric Rohmere, Franҫois Truffaut, la Nouvelle Vague. Ho già citato Vittorio De Seta, ma potrei aggiungere anche, per restare in ambito siciliano, Costanza Quatriglio, Alessandro Rossetto, Alina Marazzi, Gianfranco Rosi, insomma quel cinema documentario che ho conosciuto all’università grazie a un corso tenuto da un professore bravissimo. Del cinema documentario mi interessano molto soprattutto gli aspetti antropologici: sarebbe bello, per esempio, far leggere ciascuna delle poesie di Peripli a un abitante di uno specifico posto, così da sentirne i versi pronunciati con una specifica cadenza, con uno specifico accento. Ho fatto questo esperimento con mia nonna, facendole leggere una volta la poesia sui Ciclopi: la leggeva in dialetto, modificando quello che secondo lei non andava, ed è stato un lavoro bellissimo. In generale mi piace comunque l’ibridazione tra le forme, scrivere delle cose in cui il gergo è ripreso dalle altre arti, dalle altre tecniche; mi è capitato per esempio di scrivere di campi di grano «sovraesposti all’indistinto», in qualche modo riprendendo quindi il linguaggio fotografico. O in alcune poesie ho preso dal teatro dei pupi, in altre ho cercato di recuperare delle strutture, delle ritmiche, tipiche del parlato o di alcune musicalità come la tarantella.