Rivolte arabe: ai due lati del Mediterraneo
di Alessandro Pagano Dritto
Bisogna ammettere che con l’ultimo libro di Franco Rizzi, professore ordinario di Storia dell’Europa e del Mediterraneo all’università di Roma Tre, il tempo è stato tiranno. I fatti, la Storia, si sono incaricati di superare veloci questo agile Dove va il Mediterraneo? (Castelvecchi editore, Roma, 2013, pp. 120, 16 euro) e dal mese della sua pubblicazione, il maggio 2013, di cose nella tanto spesso citata sponda Sud del mare ne sono successe. Basti su tutte citare, per limitarci solo all’Egitto, la destituzione del presidente Mohamed Morsi, la messa al bando della sua stessa Fratellanza Musulmana e l’emergere della figura del Capo di Stato Maggiore Abd al Fattah Khalil el Sisi come cardine della politica nazionale.
Eppure, nonostante questo, l’opera del professor Rizzi, anche a distanza di un anno così veloce e denso, merita di essere letta; non solo perché la domanda del titolo è destinata a una perpetua attualità, ma anche perché aiuta a comprendere il fenomeno delle così dette «primavere arabe», etichetta vellutata che, a dir la verità, piace poco all’autore.
Sembra però opportuno consigliare la lettura, accanto e forse anche prima del libro del 2013, del precedente e più corposo Mediterraneo in rivolta (Castelvecchi editore, Roma, 2011, pp. 249, 15 euro), quasi un’istantanea sugli eventi di quel 2011 percepito subito come anomalo e turbolento da un’opinione pubblica che però faticava, al di là del mare, a ben comprendere quanto stava accadendo. Di questo piacevole carattere di istantaneità, che a tratti avvicina il saggio a un’opera di diaristica, rimane per esempio l’inizio del capitolo sulla Libia, che recita: «Oggi è domenica 27 febbraio. Il cielo a Roma non promette nulla di buono. Apro la finestra e mi accorgo che fa freddo ed è umido. Ascolto il giornale nella speranza quotidiana che il giornalista annunci che Gheddafi è fuggito e che la Libia ha finito di soffrire. Nulla di tutto ciò. La notizia più rilevante, a parte quella orrenda del ritrovamento del corpo della povera Yara Gambirasio, è che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in accordo con l’Unione europea, ha votato all’unanimità una risoluzione sugli avvenimenti in Libia, su Muammar Gheddafi e sulla sua famiglia» (p. 77).
Cronache di un anno. Nel 2013 ovviamente si è perso questo senso di sospensione e di graduale costruzione della Storia che permeava le pagine di Rizzi due anni prima: l’ipotesi sul futuro di questo o quel movimento è diventata fatto o fantasia, la speranza di un Gheddafi in fuga è morta con le scene di un linciaggio riprese da un telefonino, i panorami immaginati sono ormai notizie di giornale. Se ormai tre anni fa il saggista cercava di spiegare al lettore come valutare il peso effettivo dei movimenti islamisti nelle società rivoltose del Nord Africa, nel 2013 deve invece spiegare cosa sono stati, in Tunisia ed Egitto, Ennahda e i Fratelli Musulmani al potere, qual è il rischio di un’islamizzazione politica degli apparati dello Stato. Come si è detto, tutto materiale da aggiornare alla luce dei nuovi dati.
Rimane assodato, invece, ciò che è Storia, ciò che già lo era quando Rizzi scriveva questi suoi due libri, e il concetto base che sembra legarli entrambi: quello cioè che non si possono capire gli avvenimenti del 2011, le rivolte, se non si conosce quanto li ha preceduti di almeno mezzo secolo; e che ignorare tutto questo può portare a fraintenderli, persino a temerli, questi fatti, e a rinchiudersi – Rizzi parla ora della sponda Nord del Mediterraneo, quella europea – nel proprio alveolo di sicurezza innalzando mura e barricate, nuove e vecchie allo stesso tempo, della cosiddetta «fortezza Europa». In entrambe le opere Rizzi utilizza una metafora che gli è evidentemente cara, quella del terremoto, e nel 2013 scrive: «La rivoluzione in Egitto aveva fatto sentire la sua onda d’urto mettendo a soqquadro la società, la politica, l’economia del Paese. Un terremoto il cui processo di assestamento, come vedremo più avanti, non è ancora terminato e il cui sciame sismico si è fatto sentire in ogni parte del Paese» (p. 39). Così invece due anni prima: «Forse la nostra coscienza di occidentali non è ancora riuscita a misurare a pieno la profondità di quello che sta avvenendo. Riguardo agli avvenimenti che hanno portato alla caduta di Ben Ali e di Mubarak mi sembra che si possa avanzare l’ipotesi che ciò che sta avvenendo in Tunisia, come in Egitto, in Libia e in altri Paesi, debba essere connotato come moto di assestamento che sopravviene dopo un terremoto: nel caso specifico si tratta del terremoto che fu proprio della colonizzazione europea del XIX e XX secolo, e delle scosse di assestamento che sono seguite alla decolonizzazione» (p. 27).
Ed eccola qui, allora, la fase cruciale di tutto: la decolonizzazione, appunto, che seguì in Nord Africa gli anni della Seconda Guerra Mondiale. Su tutte, una data cruciale per la storia non solo del Paese in questione, l’Egitto, ma di tutto il mondo arabo: il 23 luglio 1952, giorno del colpo di stato degli Ufficiali liberi di Gamal Abd el Nasser (1918-1970), che trasformava in pratica reale una delle teorie politiche possibili del sentimento di rivalsa arabo dopo la colonizzazione europea: quella strutturata sul modello sovietico, che basava la rivalsa sul progresso, l’indipendenza e l’autonomia economica delle ex colonie rispetto agli Stati occidentali, mettendo in secondo piano questioni come la democrazia e la libertà dei popoli.
Rizzi non nasconde di vedere in tutto questo il centro del problema e, parlando delle rivolte del 2011, chiarisce come non di solo pane si trattò, bensì di un sentimento di rivalsa collettiva: questa volta non su un nemico coloniale o occidentale, ma su un sistema politico interno incancrenito che da promessa in parte mantenuta di sviluppo e di beneficio collettivo era diventato poi una sorta di cricca autoreferenziale e opprimente. Alla base di tutto, una sapiente miscela, diversa di caso in caso, di una retorica che parlava di nazionalismo e di assistenzialismo e di una pratica che invece era del tutto liberista e in fondo egoista, con legami ben saldi con la sponda Nord del mare.
È chiaro dunque che, per la natura e l’antichità del rapporto tra le due sponde del Mediterraneo, le rivolte arabe non potevano lasciare indifferente il Vecchio Continente, che lo avrebbero per forza di cose interessato e coinvolto. Ma Rizzi è ben poco accondiscendente verso un mondo, quello appunto europeo e in generale occidentale, «che si era costruito una serie di stereotipi attraverso i quali leggere la realtà di questi Paesi, si è trovato nudo alla meta […]. Nudo alla meta, perché da questo deriva il suo silenzio, e quando ha cercato di dire qualcosa è stato balbuziente» (p. 113). Quelli cui si riferisce Rizzi sono stereotipi ben noti e diffusi, facilmente percepibili per chi ha una dimestichezza anche minima col tema: gli stereotipi dell’inconciliabilità del mondo arabo musulmano, visto come atavicamente retrogrado e pericoloso, e di quello invece moderno e libero d’Occidente; dell’univoco trasferimento bonario e paterno di idee salvifiche secondo una strada che attraversa il Mediterraneo solo da Nord a Sud e mai, come invece è stato dopo il gennaio 2011 per movimenti come gli Indignados o gli Occupies che all’epoca fiorirono, da Sud a Nord.
Scriveva Rizzi nel 2011 a fatti ancora in corso nel pieno della loro forza: «Non credo che queste rivolte si potranno fermare, e quindi bisogna prepararsi a una nuova geopolitica mediorientale. L’immagine che mi viene in mente per descriverle è quella dello tzunami, un’onda anomala che sino a ieri nessuno poteva prevedere e che ha investito e sta investendo tutto quello che trova sulla sua strada, nella ricerca affannosa di trovare una sua sistemazione dopo la distruzione. Questo è un movimento, bisogna ricordarlo, che non ha avuto leader, né laici né legati a modelli religiosi: un movimento che ha espresso una forza capace di abbattere regimi consolidati nel tempo ed è riuscito a mettere in luce molte contraddizioni sia del mondo occidentale che di quello arabo» (p. 165).