Pubblicato il: Sab, Ago 31st, 2013

Un secolo di Siria. Storia recente di un paese in guerra

di Alessandro Pagano Dritto

Gli ultimi eventi – dall’attacco chimico su Damasco in poi – hanno riportato sotto i riflettori la Siria e il conflitto tra il governo del presidente Bashar al Asad e il variegato fronte ribelle.

Mirella Galletti, Storia della Siria contemporanea. Nuova edizione aggiornata alle rivolte della primavera araba, Bompiani, Milano, 2013 2a ed., pp. 274, 10 euro

Mirella Galletti, Storia della Siria contemporanea. Nuova edizione aggiornata alle rivolte della primavera araba, Bompiani, Milano, 2013 2a ed., pp. 274, 10 euro

Chi desideri capire il passato di questo paese per meglio interpretarne il presente potrà allora ricorrere a un volume che quest’anno ritorna con perfetto tempismo nelle librerie: Mirella Galletti, Storia della Siria contemporanea. Nuova edizione aggiornata alle rivolte della primavera araba (Bompiani, Milano, 2013 2a ed., pp. 274, 10 euro).

Nell’impossibilità di rendere conto per intero in una sola recensione di un materiale tanto vasto come la storia recente di un paese, e per giunta di un paese complesso come la Siria, ci si limiterà qui a tracciare le coordinate essenziali del suo Novecento, tenendo conto dei limiti indicati dalla stessa autrice nella premessa al suo lavoro: l’economia, il conflitto arabo-israeliano e i rapporti siro-palestinesi, argomenti sui quali esiste, sostiene la Gamelli, una letteratura sufficientemente vasta da renderne superflua la trattazione specifica in un testo generale come questo.

Ben prima di essere uno Stato, la Siria fu un concetto. Il termine Grande Siria ha indicato infatti fino a tempi storicamente recenti quelle terre comprendenti grosso modo le odierne Palestina, Giordania, Libano, Siria e Iraq; zone e terre in gran parte adatte all’agricoltura, tanto da essere spesso indicate col termine di «Mezzaluna fertile» e che proprio questa fertilità – vi scorrono i fiumi Tigri ed Eufrate – insieme al fatto di trovarsi al crocevia tra area mediterranea e Oriente ha da sempre popolato di insediamenti, villaggi e città, e con questi di genti e culture tra le più varie al mondo.

Dopo essere stata a lungo un concetto, nel 1920 la Siria diventò anche uno Stato. Era finita la Prima guerra mondiale, e Inghilterra e Francia si dividevano le influenze in terra mediorientale; un paese chiamato Siria, con confini in parte diversi da quelli attuali, ricadeva sotto il controllo francese, Giordania e Palestina vennero invece chiamate le terre inglesi. La Grande Siria perdeva insomma l’aggettivo e la sua omonima politica diventava più modestamente un’appendice della Francia.

Thomas Edward Lawrence, meglio noto come Lawrence d’Arabia (1888-1935). Nel 1918 il suo ingresso a Damasco al seguito delle truppe di Faysal Ibn al Husayn (1885-1933) sembrò promettere la realizzazione politica della Grande Siria sotto la tutela inglese. Le cose andarono poi in altro modo.

Prima era stata per secoli una provincia dell’Impero Ottomano, poi la crisi di questo aveva fatto sperare nell’indipendenza e il 3 ottobre 1918 gli uomini di Faysal Ibn al Husayn (1885-1933), futuro re siriano e iracheno, entravano a Damasco: tra di loro, la fascinosa figura del colonnello Thomas Edward Lawrence, meglio noto come Lawrence d’Arabia (1888-1935), testimoniava come quell’ingresso fosse avvenuto con il consenso e la tutela dell’Inghilterra.

I francesi ereditarono così dall’Impero Ottomano un paese molto variegato. I diversi eventi storici susseguitesi nei secoli, tra periodi di gloria e tempi invece infausti, ne avevano fatto un crogiolo di etnie e di culture, specialmente religiose. Accanto a una maggioranza araba musulmana sunnita, convivevano in Siria etnie come quelle curda e drusa e gruppi religiosi come cristiani di varie confessioni, ebrei e musulmani alawiti.

La nuova potenza europea, che sulla carta doveva occuparsi solo della politica estera del paese, ma che invece ne dominava ampiamente anche quella interna, scelse di dividere la Siria in aree distinte, da cui traggono origine storica alcune delle attuali province e anche alcuni territori esterni. La zona costiera, nordoccidentale, affacciata sul Mediterraneo, divenne per esempio il «Territorio autonomo degli alawiti», assumendo nel 1930 il nome di «Governo di Latakia», dal nome della sua città più importante. Il primo nome era giustificato dal fatto che, secondo i dati riportati dalla Galletti, su 261.000 abitanti, 150.000 erano appunto alawiti. Gli altri, invece, appartenevano ad altre religioni o ad altre confessioni.

Il gruppo alawita rappresenta oggi la più estesa delle minoranze religiose presenti in Siria (13%) e abita le sue terre almeno dal X secolo. Il nome con cui sono noti – che significa «seguaci di Alì» – fu dato loro dai francesi, ma quello con cui sarebbe più corretto indicarli è «nusayri», che deriva dal loro fondatore Ibn Nusayr (m. 883): ritengono che il 4o califfo Alì incarni la divinità, si dividono in cinque federazioni, ognuna divisa in tribù e sottotribù, distinguono i fedeli comuni dagli iniziati destinatari del messaggio religioso. Gruppo di impostazione essenzialmente islamica, la Galletti descrive gli alawiti come una comunità eclettica ma chiusa, socialmente emarginata nel corso dei secoli.

Michel Aflaq (1910-1989). Fu uno dei fondatori del Ba’th. Quando Hafiz al Asad accentrò su di sé tutti i poteri e mise fuori gioco l’ala civile del partito, si stabilì nel vicino Iraq, dove lo stesso partito era salito al potere un mese prima che in Siria, nel febbraio 1963.

Le vicende della Seconda guerra mondiale portarono la Siria all’indipendenza, ufficializzata il 17 aprile 1946. Iniziò così per il paese un ventennio di instabilità, dove si susseguirono colpi di Stato di diverso segno e tendenza, ma tutti destinati a vita breve. La sconfitta subita nel 1948 nel primo conflitto contro Israele rinforzò il nazionalismo arabo della classe militare siriana, che definì se stessa e il proprio paese come il primo e maggiore bastione del panarabismo. Un anno prima, nel 1947, un partito, i cui esponenti erano alawiti, sunniti e anche cristiani, si faceva interprete dello stesso sentimento, tanto da rifiutare di essere un partito strettamente nazionale e diffondersi invece in altri paesi arabi, specialmente nel vicino Iraq: era il partito Ba’th, «rinascita».

Tra il 1958 e il 1961 la Siria sperimentava sul campo della politica internazionale l’effimera esperienza della Repubblica Araba Unita (RAU) e della fusione con l’Egitto di Gamal ‘Abd al Nasir (1918-1970), noto in Italia come Nasser, cui pose fine l’ennesimo, altrettanto effimero, colpo di Stato. Non fu una mossa particolarmente felice per Damasco, quella della RAU, perché provocò una fuga di molti cristiani timorosi di un certa retorica islamista, e soprattutto dei loro capitali: da secoli protetti dalla Francia, i cristiani, seppur minoranza, avevano infatti formato una élite culturale, economica e sociale di tutto rispetto all’interno del paese. Ma nei pochi anni di questo esperimento si era formato in Egitto un giovane ufficiale siriano destinato a gloria futura.

Il partito cui anche il giovane ufficiale dell’aereonautica aderiva, il Ba’th, prese il potere con un ultimo colpo di Stato l’8 marzo 1963. Facendo proprie le istanze socialiste, il partito fece seguire una serie di riforme economiche e sociali che portarono a una redistribuzione delle terre e a una ridefinizione dell’assetto sociale siriano. Se infatti – ragionando in irreali termini assoluti – fino ad allora buona parte del potere economico, sociale e politico era stato nelle mani della buona borghesia cittadina araba sunnita, concentrata soprattutto a Damasco e Aleppo, adesso una parte di questo potere veniva redistribuito alle minoranze etniche o confessionali che lavoravano le campagne del paese.

Hafiz al Asad (1930-2000). Dall’interno dello stesso partito Ba’th, prese il potere nel 1970, ponendo fine ad un lungo periodo di instabilità politica che durava dai primi anni dell’indipendenza della Siria. Governò ininterrottamente fino all’anno della morte, nel 2000, reprimendo in qualche occasione nel sangue il dissenso interno.

Quando poi il giovane ufficiale dell’aereonautica, alawita di Qardaha, vicino Latakia, riuscì a imporre il comando dei militari sul partito e ad assumere personalmente il potere il 13 novembre 1970, la rivoluzione sociale poté sembrare completa: gli alawiti, da secoli relegati a occupare i gradini più bassi della società siriana, si ritrovarono vicini al potere, vicini al loro nuovo presidente Hafiz al Asad (1930-2000). Non per tutti gli alawiti vi fu una rivoluzione; Asad si circondò di parenti ed amici fidati, tra i quali l’amico di una vita Mustafa Tlass (n. 1932) terrà per decenni il ministero della Difesa, ma tutti gli altri esponenti di questa comunità videro uno di loro raggiungere non i vertici, bensì il vertice del potere in Siria.

Il 1973 fu l’anno della cosiddetta «guerra del Kippur», che segnò forse l’apice dello scontro tra Israele e Siria. In ottobre una coalizione formata principalmente da Egitto e Siria attaccò a sorpresa Tel Aviv, che risolta una pace separata col Cairo, concentrò la sua forza militare su Damasco: dal precedente conflitto del 1967 pendeva irrisolta, infatti, la questione del Golan, alture montuose con vista sulla capitale siriana, che Israele aveva occupato.

I costi della guerra furono altissimi per la Siria, che ne uscì anche isolata: oltre ai rapporti con l’Egitto Asad aveva infatti rotto anche quelli con l’Iraq, che all’inizio aveva supportato le operazioni. Ma Israele era penetrato per 500 km oltre il Golan e, seppur ritiratosi, si era dimostrato un avversario troppo forte perché la Siria potesse attaccarlo frontalmente con successo. Da allora in poi le due potenze si fronteggeranno piuttosto nel vicino Libano, che tra gli anni ’70 e gli anni ’80 attraversò quasi due decenni di guerra civile. Solo alleanze economiche e militari esterne avevano salvato il paese: quella con l’Iran e quella con l’Unione Sovietica; alleanze che sopravvissero anche alla guerra tra Iran e Iraq (1980-1988), in cui Damasco prese le scomode difese della teocrazia non araba di Teheran, l’Iran.

Nel 1982 l’opposizione interna al potere di Asad prese corpo negli scontri della città di Hama, in cui migliaia di oppositori, soprattutto elementi della clandestina Fratellanza Musulmana, caddero vittime della repressione dell’esercito. Hama fu un fatto isolato e gli appelli delle radio irachene che incitavano i siriani alla rivolta contro il governo centrale rimasero inascoltati.

Nel 1991 la fine dell’Unione Sovietica costringeva la Siria ad aprirsi all’Occidente, a tal punto da rientrare nel fronte anti iracheno durante la Guerra del Golfo; apertura che, seppur a fasi alterne, Asad cercò di mantenere negli anni successivi fino alla morte, avvenuta nel 2000.

Hafiz al Asad (1930-2000), in alto, coi due figli Basil (1962-1994), a sinistra, e Bashar (n. 1965), a destra, in un disegno propagandistico. L’aggravarsi delle condizioni di salute costrinsero il presidente siriano a porsi presto il problema della successione. La morte del prescelto, Basil, in un incidente automobilistico vicino Damasco, aprì al fratello Bashar, attuale presidente, la strada della politica.

Così scrive Mirella Galletti a proposito di Hafiz al Asad, padre dell’attuale presidente Bashar: «Costruì un sistema di potere molto complesso, fortemente centralizzato intorno alla sua persona, e capace di mantenere una forma di unità e di coerenza. Non aveva il carisma di Gamal Nasir, ma era un astuto politico che ha cercato di sviluppare lo stato e l’apparato del partito per legittimare la sua posizione e ha costruito l’esercito come principale sostegno dello stato.

È stato pragmatico e cauto, consultava i suoi sostenitori. Con lui gli alawiti sono entrati nella stanza dei bottoni, ma ha cercato di non alienare la maggioranza sunnita, attraversata da movimenti fondamentalisti, obbligando le autorità alla prudenza e al compromesso. Il presidente Hafiz al Asad ha cercato pur in uno stato non confessionale di costruire un’immagine religiosa ortodossa […]. I legami confessionali di clan sono stati determinanti in queste quattro decadi per dare spessore alle strutture del potere del regime siriano quali le forze armate, i servizi di sicurezza e le altre istituzioni. Senza questi legami il Ba’th non avrebbe potuto sopravvivere per così lungo tempo». (pp. 197-198)