Il Cairo nel caos: nuovo Egitto o guerra civile?
di Riccardo Venturi
C’è chi parla di guerra civile, chi invece rimane più cauto e ottimista, trovando nell’attualità egiziana la strada verso un paese finalmente democratico e definitivamente laico. In ogni caso l’Egitto sprofonda in una spirale di violenza che costringe amaramente a guardare indietro, ai primi speranzosi giorni di Piazza Tahrir. Le immagini che arrivano dal Cairo sono cruente, scene ordinarie di un Medio Oriente sempre più in preda alle degenerazioni di una crisi internazionale di cui, molto spesso, non si ha una percezione unitaria.
Come nei giorni precedenti, la capitale si è svegliata nel caos. I Fratelli Musulmani, sostenitori del deposto Presidente Morsi, sono i fautori di un’escalation di proteste che va avanti fin dal giorno successivo all’intervento dei militari (datato tre luglio). Il fronte laico, ambiguamente applaudito da USA e stati europei per la pacifica e matura opposizione alla deriva autoritaria del Partito Libertà e Giustizia (braccio politico-istituzionale della fratellanza), è di nuovo diviso tra chi ritiene necessaria la dura repressione armata anti-islamista e chi si è sentito nuovamente tradito dall’esercito che, intervenendo unilateralmente, ha causato la chiusura di un metaforico cerchio che riporta la nazione nell’era Mubarak. Il quattordici agosto è iniziato con lo sgombero delle piazze del Cairo, dove si riunivano i manifestanti pro-Morsi. L’uso della forza e le prime centinaia di vittime, la proclamazione dello stato d’emergenza in tutto il paese e le dimissioni del Vicepresidente El Baradei, hanno segnato lo spartiacque di una situazione prima molto precaria, ormai compromessa. Due giorni dopo, i Fratelli Musulmani hanno chiamato i propri sostenitori a partecipare al “Venerdì della collera”. Dopo la preghiera del venerdì, un corteo avrebbe dovuto attraversare la città, arrivando alla centrale Piazza Ramses. Dall’intimidazione alle provocazioni e alle reazioni il passo è breve: da una parte le forze dell’ordine e le milizie a sostegno dell’esercito, dall’altra alcuni islamisti armati, hanno dato il via al massacro. I primi scontri su larga scala hanno mietuto molte vittime fra civili non armati, manifestanti, forze dell’ordine ed anche giornalisti. Dopo l’iniziale dispersione conseguente agli attacchi, i sostenitori dell’ormai ex-Presidente hanno comunque ricostituito il corteo. Anche nel resto del paese manifestazioni e scontri proseguono senza sosta, mentre le moschee, adibite a quartieri generali dai Fratelli, vengono assediate dalle forze governative per sgomberarle. Proprio ieri, dopo l’evacuazione della moschea di Al-Fatah, il contatto tra le due fazioni è stato evitato da un cordone di sicurezza delle forze dell’ordine. Alla fine di questa settimana il computo delle vittime è incerto. Le fonti vicine all’esercito minimizzano parlando di poche centinaia di morti (fra i quali molti poliziotti), i Fratelli Musulmani alzano l’asticella e ne contano oltre duemila. Solo tra ieri e l’altro ieri, in tutto l’Egitto, il numero di arresti supera il migliaio.
Quel che emerge è quindi un quadro da guerra civile. La lunga e deteriorante crisi siriana è un paradigma ancora eccessivo e contestualmente lontano, ma il paese è ormai spaccato a metà. Se le aggressioni nei confronti dei cristiani copti non fanno quasi più notizia, gli scontri di questi ultimi giorni catapultano l’Egitto in uno stallo senza apparenti sbocchi immediati e pacifici. A due anni e mezzo dalla rivoluzione lo scenario egiziano segue il trend regionale. La sconfitta dei rivoluzionari moderati, liberali e laici è evidente: l’inedito esperimento pluralista, elettorale e costituzionalista non si è tradotto in un processo di radicazione democratica, così come sognato e perseguito trasversalmente (ma immaginato diversamente) a Piazza Tahrir. Anche se per motivi di convenienza le cancellerie occidentali sono restie ad ammetterlo, quello del tre luglio è un golpe a tutti gli effetti; i militari hanno in mano le redini della politica egiziana, un presidente regolarmente eletto è stato deposto con la forza, i rivoluzionari “d’antan” sono passati dalla padella alla brace, per poi ricadere nella padella militarista. Il dibattito sulla necessità dell’intervento e sulla difesa della laicità è aperto a tutte le interpretazioni, tanto più considerando la poca disponibilità al compromesso politico dell’ex-Presidente e dei suoi supporter, ma l’attuale Egitto è senza dubbio un paese non democratico, diviso e ben lontano dall’essere pacificato, tanto che c’è già chi si pente del sostegno dato all’esercito. Il frettoloso intervento dell’esercito ha bruciato la possibilità di estromettere Morsi alle urne (o legittimamente con la forza, in caso di un “inversione ad U” sul sentiero del pluralismo), fornendo ai Fratelli un comodo assist vittimista. Inoltre, la società egiziana, le cui divisioni sono state esasperate e moltiplicate dagli ultimi sviluppi politici, è “incatenata” al profondo radicamento e alle straordinarie dimensioni numeriche delle parti in gioco. In questo contesto, le forze armate sono ormai costrette a non cedere per sopravvivere, alimentando la spirale repressiva e allargando la faglia con i sostenitori di Morsi; allo stesso tempo la Fratellanza Musulmana è fortemente presente nel tessuto sociale del paese da svariati decenni, il che la rende impossibile da debellare. I sostenitori del movimento fondato da Hasan al-Banna, dopo anni di opposizione clandestina sono pronti a tutto per difendere il varco apertosi con la Primavera araba. L’intensità delle proteste mostra la loro determinazione a non ricadere nell’oblio. Il diktat è non mollare fino alla restaurazione di Morsi. Se l’attuale governo ha il coltello dalla parte del manico (grazie alla superiorità armata e all’immobilismo internazionale), i Fratelli Musulmani reagiscono come possono, facendo leva su una rete di solidarietà transnazionale che potrebbe avere sbocco nel ritorno alla clandestinità e in una prossima riemersione “dal basso”. Opzione direttamente alimentata dall’attuale Presidente egiziano Hazem Al-Beblawi che chiude ad ogni possibilità di riconciliazione, proponendo lo scioglimento della Fratellanza e bollando i suoi esponenti come estremisti e terroristi. Il rischio più grande della repressione di questi giorni è quindi la radicalizzazione delle posizioni degli islamisti e la conseguente apertura di un importante spazio politico e sociale per salafiti e jihadisti, il “worst-case scenario” per Stati Uniti e alleati.
Proprio l’amministrazione Obama esce con le ossa rotte dall’ingestibile pantano mediorientale. In Siria Obama ha agito ambiguamente, mostrando un volto molto più realista e cauto rispetto alle utopie pre-elettorali; in Egitto gli Stati Uniti rimangono ai margini, sapendo di non poter sbagliare e finendo così per commettere continui errori di valutazione. Il Cairo è storicamente uno dei centri nevralgici del Dar al-Islam. La Fratellanza Musulmana, uno dei percorsi ideologici più importanti dell’islamismo contemporaneo, nasceva sulle rive del Nilo svariati decenni fa; meno sbiadite sono le immagini di una rivoluzione che ha rappresentato l’epicentro della Primavera araba, nata in Tunisia ma realizzatasi in maniera apparentemente e ottimisticamente compiuta a Piazza Tahrir. Sfogliando i libri di storia si vedrà come il destino dell’Egitto sia legato a doppio filo a quello di Israele. A Gerusalemme la stabilità dei rapporti con il grande vicino arabo è un dogma strategico, ancor più in virtù dell’implosione damascena. Quanto basta agli USA per erigere Il Cairo a bastione della sicurezza dell’area e versare annualmente un miliardo e mezzo di dollari all’esercito egiziano. Seguendo costantemente la “Stella Polare” della Realpolitik, Obama non si è mai sbilanciato: Morsi sembrava un’ottima soluzione per salvare capra (status quo e interessi economici) e cavoli (immagine pro-democratica, modello arabo di Islam moderato e argine a derive radicali), ma il repentino salto sul carro di Al-Sisi ha mostrato ancora una volta l’opportunismo di Washington, evidenziando la sua parabola geopolitica discendente. Gli alleati europei (più specificamente Germania, Francia, Regno Unito e Italia) condannano formalmente le violenze, ma, nonostante l’inedita convergenza e al netto degli aiuti economici statunitensi, hanno ancora meno voce in capitolo. Intanto la monarchia saudita gongola per l’attuale situazione che vede il ridimensionamento delle ambizioni dell’insorgente vicino-rivale Qatar (principale sponsor dei Fratelli) e, allo stesso tempo, l’apertura di nuovi spazi per il wahabismo in un paese di importanza fondamentale come l’Egitto. Infine, la Turchia di Erdoğan, alle prese con problemi interni ed esterni, è preoccupata per gli effetti indiretti sulla già stressata situazione domestica e iscrive nella stessa “black list” Al-Sisi e Al-Assad. Russia e Cina rimangono a guardare, da spettatrici interessate.
I recenti eventi egiziani non sono di certo i primi campanelli di allarme di un percorso che ha già incontrato grandi ostacoli in Bahrein, Libia e Siria, ma in questo caso il déja vu offerto dall’esercito riporta con troppa nitidezza all’Egitto prerivoluzionario; stavolta con molte più incertezze e con la concreta possibilità che al Cairo venga sancita ufficialmente la fine del sogno arabo. Per un beffardo scherzo del caso, la Primavera araba nasce d’inverno e potrebbe tramutarsi in autunno proprio d’estate.