Pubblicato il: Dom, Lug 7th, 2013

Prima e dopo il 2011: essere donne in Libia

di Alessandro Pagano Dritto

Quasi un secolo dopo c’è chi lo giura: quella che ormai comunemente viene chiamata «Rivoluzione del 17 febbraio», che nell’ottobre 2011 portò alla morte del Colonnello Muammar Gheddafi e alla fine del suo pluridecennale esperimento politico della Jamahiriya, avrebbe provocato nel più circoscritto territorio della Libia qualcosa di simile a quello che la prima guerra mondiale aveva fatto in Europa, quando donne vestite da operaie, toccandosi i bicipiti come a misurarne la forza, dicevano sorridenti da certi manifesti: «We can do it!»«Possiamo farlo!». Alla fine di giugno, la consegna di un premio, da parte del ministro degli esteri italiano Emma Bonino, all’attivista libica Alaa Murabit presidente dell’associazione The Voice of Libyan Women, sembra la giusta occasione per fare luce sull’effettiva condizione delle donne libiche.

Alaa Murabit, presidente dell’associazione non governativa Voice of Libyan Women. Le prime ONG femminili indipendenti dal governo sono sorte in Libia con la rivoluzione del 2011. (fonte: http://www.vlwlibya.org)

All’indomani degli scontri di febbraio che a Bengasi accesero la miccia dei successivi mesi di conflitto tra ribelli e lealisti, alcune giornaliste si recarono nella città ormai vuota dai gheddafiani per documentare le esperienze femminili, consegnate alla carta mentre i video riprendevano il lato armato e maschile della guerra. Le storie raccontate furono molte, spesso simili tra loro. Mentre gli uomini partivano per il fronte occidentale, prima verso Misurata e poi verso Tripoli, nelle retrovie di Bengasi le donne riempivano le cucine abborracciate nelle scuole e curavano i feriti nell’ospedale quando le infermiere straniere avevano da tempo abbandonato le strutture per fare ritorno in patria, scrivevano su nuovi giornali e stilavano nei computer elenchi di feriti, di morti e di dispersi.

Jasmine Sherif, 27 anni, era fresca di laurea all’università cittadina, la «Gar Younis», e niente prima l’avrebbe portata ad immaginare che i 228 morti e i 1932 feriti di quei pochi giorni di scontri le avrebbero fatto fare una tristissima ma robusta pratica all’«Al Hawaree», l’ospedale di Bengasi. Alla giornalista del The National,  Sarah Birke, dichiarava che avrebbe dovuto sposarsi con un medico del posto, ma che la guerra, in sostanza, l’aveva costretta a rimandare la cerimonia a data da destinarsi.

A Suzanne Himmi, 35 anni, bastava affacciarsi alla finestra di casa sua, per vedere coi propri occhi quello che succedeva al palazzo di giustizia, il luogo simbolo della Libia ribelle che per qualche mese fece da contraltare alla Piazza verde di Tripoli, il luogo della rivoluzione gheddafiana. Lì risiedeva il governo transitorio (National Transitional Council, NTC) e lì avevano manifestato il 15 febbraio gli avvocati che chiedevano la liberazione del loro collega Fathi Terbil, rappresentante legale dei parenti delle vittime dell’eccidio di Abu Selim: in questo carcere del quartiere tripolino a metà anni ’90 il governo aveva ucciso 1200 detenuti, molti dei quali politici. Tra gli avvocati anche due avvocatesse, le sorelle Salwa e Iman Bugaighis, che si diedero subito a fare da tramite tra l’NTC e la popolazione, portando istanze e lamentele, tenendo discorsi pubblici e comizi.

Salwa Bugaighis. Avvocatessa, 44 anni, è stata uno dei volti più noti della Bengasi delle proteste nel 2011. Con molti colleghi protestò il 15 febbraio per il rilascio dell’avvocato Fathi Terbil e quella protesta fu l’origine di tutto. (fonte: http://www.thenational.ae)

Ed è proprio qui, al palazzo di giustizia, che la stessa giornalista Sarah Birke ritrae la maggiore delle due sorelle, 44 anni, all’inizio del suo articolo:  «In una spoglia, mesta stanza secondaria del palazzo di giustizia nel centro di Bengasi, il fulcro delle operazioni per la democrazia in Libia, Salwa Bugaighis parla animatamente, spostandosi a malapena quando gli spari riecheggiano dalla folla rauca all’esterno. Questa, come lei, è in uno stato d’animo che va dal trionfo e la sfida fino all’inquietudine. La folla ha riempito l’area del lungo mare, che, da quando la parte orientale del paese è stata liberata il 20 febbraio, è tappezzata di cartelloni che ostentano caricature del leader libico Colonnello Muammar Gheddafi e piena di bancarelle che vendono souvenirs».

Questo è probabilmente anche quanto Suzanne Himmi descrive guardando dalla sua finestra, annotandolo e poi riversandolo nelle pagine di uno dei tanti giornali nati nell’euforia dei fatti, il Libya. È il suo modo di servire la causa: «È importante – dice – che la gente sappia cosa succede, così non si spaventa. Come qualsiasi altro, ho un fuoco dentro. E scrivere è il mio modo di lasciarlo uscire».

Jasmine, Suzanne, Salawa e Irma – pare che Gheddafi apostrofasse ironicamente i fatti di Bengasi come «la rivoluzione delle Bugaighis» – sono solo quattro dei nomi le cui storie sono state riportate da giornaliste come Sarah Birke o Janine Di Giovanni, pubblicata quest’ultima da Vogue, o raccontate in libri come La rivoluzione libica di Farid Adly, ma ognuna di queste quattro storie ha in comune un contesto, che è quello della condizione femminile in Libia. Un contesto che per capire e non confondere la storia di tutte con l’episodio di alcune, va almeno accennato e compreso.

La lunghezza massima cui un articolo è tenuto impedisce di rendere conto di tutti gli aspetti della legge e di tutte le leggi, che meriterebbero una trattazione ben più ampia del consentito. Ci si limiterà qui allora a qualche cenno; il lettore più paziente e volenteroso troverà modo di approfondire e conoscere i dettagli nei riferimenti indicati: una pubblicazione recente di Human Rights Watch, maggio 2013, e una del 2010 di Freedom House a firma della studiosa Alison Pargeter aiuteranno per esempio a fare luce.

In 42 anni di gheddafismo la Libia non ha mai avuto una costituzione, ma il Libro Verde del Colonnello e alcuni suoi discorsi o atti editi in anni più recenti hanno comunque garantito al paese una legge che regolamentava la posizione delle donne nella società. Anche se questa legge non era priva di contraddizioni, sembra che la donna libica godesse e goda di vantaggi oggettivi nei confronti di altre realtà più o meno vicine.

Il Libro Verde riconosceva a tutti i cittadini, di entrambi i sessi, uguaglianza di fronte alla legge e la Grande Carta Verde dei Diritti Umani nell’Età delle Masse (Great Green Charter of Human Rights in the Age of the Masses) del 1988 arrivava ad affermare, scrive la Pargeter, che «[entrambi i sessi] sono uguali in qualsiasi cosa sia umana. La distinzione tra uomini e donne è una flagrante ingiustizia che nessuno giustifica». Sulla stessa scia l’articolo 1 della legge 20/1991. Di fatto però la legge stessa non rispettava fino in fondo quanto predicato, se lo stesso Libro Verde dava ad ogni sesso delle prerogative proprie e dei ruoli che andavano rispettati, pur nell’uguaglianza.

È vero infatti che la donna libica poteva già nella Jamahiriya studiare e lavorare come un uomo – anzi, nell’anno accademico 2007/2008 le università del paese contavano 101.537 studentesse contro 59.179 studenti iscritti – ma è anche vero che le proporzioni in ambito lavorativo non erano simili: per rimanere in ambito accademico – stesso anno -, ma dall’altra parte della cattedra, l’università di Sebha contava 51 professori e nessuna professoressa, 92 lettori ma solo 11 lettrici.

Nel governo libico, dal 1977 al 2006 ci sono state solo sei ministre e alcune figure femminili in ruoli minori, come rappresentanti di associazioni lavorative tutte legate ai Gheddafi, come quella dei giornalisti di Tripoli, Salma al Sha’ab. Eccezione, nel 2008, Najat al Hajaji, che fu ambasciatrice all’Onu.

Lo stesso lavoro femminile era tutelato dalla legge in modo diverso da quello maschile, e a volte discriminatorio: è vero che ampie garanzie erano assicurate in caso di maternità, ma per esempio dalle 20.00 alle 7.00 non era permesso che una donna lavorasse: cosa che faceva sì che gli ospedali, ad esempio, assumessero infermiere non libiche. Le stesse che hanno poi lasciato il posto a Jasmine Sherif nel febbraio 2011 all’ospedale di Bengasi.

L’ambito in cui la donna era – ed è – più discriminata è però quello familiare. La legge gheddafiana prevede il divorzio per colpa o consensuale. La donna ritenuta colpevole deve allontanarsi dal marito e dai figli e non le viene riconosciuta la dote matrimoniale, sadaq. Al contrario dovrebbe esserlo, ma spesso, scrive la Pargeter, non lo è comunque e la donna torna alle dipendenze della famiglia di origine. Non esiste legge contro la violenza sessuale matrimoniale, che anzi spesso viene negata o comunque molto minimizzata a livello ufficiale: anche perché la violenza per essere denunciata deve essere evidente e quindi dimostrata subito. Ma la violenza o lo stupro subiti sono spesso considerati disonoranti per la famiglia della donna e quindi taciuti. Anzi, se la violenza avviene fuori dal matrimonio spesso si ricorre al cosiddetto «matrimonio riparatore» tra stupratore e stuprata, che mette a tacere qualsiasi affronto. L’assassinio di una donna colta in adulterio e del suo amante vengono puniti con un massimo di due anni di carcere, altre violenze in queste occasioni non sono nemmeno punibili. In ultimo la legge prevede la poligamia, pratica però scarsamente diffusa e praticabile di solito solo con il consenso esplicito della prima moglie.

Un’anziana signora vota alle elezioni del luglio 2012 per il General National Council (GNC). (Fonte: Reuters)

La legge in vigore in Libia è ancora in buona parte quella già attiva prima della rivoluzione e le donne hanno ancora molto, quindi, da lavorare. Secondo i dati riportati da Human Rights Watch, alle elezioni del 2012 per il nuovo organo parlamentare, il Consiglio Nazionale Generale (General National Council), sono state elette 33 donne su 200 componenti. Inoltre sono nate organizzazioni femminili come Women for Libya e Voice of Libyan Women che, indipendenti dagli organi di governo, sostengono la causa femminile nel paese.

In alcune zone, anche cittadine, si registrano aggressioni fisiche e verbali contro alcune donne e si sono registrati atti vandalici nei confronti di cartelloni elettorali di deputate in occasione delle elezioni del GNC. Ma oggi negare che la violenza contro le donne non esista appare almeno sempre più difficile e a Tripoli si è recentemente organizzata una corsa mista per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’argomento.

Non è forse pensabile che la fine violenta di un sistema politico cambi anche le storture di una società, ma forse si è intrapresa la strada giusta: «Ci sarà un cambiamento – dice al Guardian Hannan Aderat, venticinquenne titolare a Misurata dell’associazione femminile Basmat al Horia che tutela gli invalidi di guerra – ma non per me. Per i miei figli, forse. O forse per i miei nipoti».