Pubblicato il: Mer, Gen 23rd, 2013

Croci rosa nel deserto di Ciudad Juárez

di Valeria Vellucci

Installazione dell’artista messicana Elina Chauvet, in memoria delle donne uccise a Ciudad Juárez

Ciudad Juárez, stato di Chihuahua, Messico. Posizionata esattamente di fronte alla città texana di El Paso, con la quale va a formare la più grande area metropolitana binazionale sul confine tra Messico e Stati Uniti, Ciudad Juárez, seguita dalla statunitense New Orleans e dalla venezuelana Caracas, detiene il triste primato di città più pericolosa del mondo.

La spirale di violenza, accentuatasi all’inizio degli anni novanta, è prevalentemente legata all’attività illecita del narcotraffico, maggiormente attivo lungo tali strategiche zone di frontiera.

Nel corso degli anni il centro messicano è progressivamente divenuto una ‘rinomata’ area industriale, data l’alta concentrazione di quelle che vengono comunemente definite maquiladoras, ovvero fabbriche di assemblaggio con alte agevolazioni fiscali e manodopera a basso prezzo. Seppur tali industrie non abbiano apportato miglioramenti nella qualità della vita, esse sono il motivo principale che spinge un gran numero di abitanti dei centri rurali, soprattutto donne, a spostarsi verso l’agglomerato urbano. Oltre che per il traffico di sostanze stupefacenti, delinquenza minorile, corruzione e bande, Ciudad Juárez è purtroppo nota a causa dei gravi crimini commessi nei confronti di giovani donne, i quali si protraggono, ininterrottamente, da circa un ventennio.

Secondo le scarse ed insufficienti statistiche, si contano, dal 1993 al 2012, oltre 600 donne uccise, e più di 4500 sono quelle scomparse. Giovani donne, provenienti da famiglie povere, principalmente operaie (prive di ogni tutela sul lavoro) delle maquiladoras, di età compresa tra i 14 e i 30 anni, more e di corporatura esile. I loro corpi, abbandonati sul ciglio di una strada oppure in aree desertiche, presentano segni di violenza sessuale, mutilazioni, ustioni. Talvolta sono del tutto irriconoscibili a causa del volto deturpato. Sorge spontaneo chiedersi il perché di una tale gratuita ed efferata violenza. Violazione del corpo femminile come modo per esibire il proprio potere? Maschilismo, insito in una società di stampo patriarcale, che si fonde con la diffusa e predominante illegalità del narcotraffico?

Le statistiche sono incerte e contraddittorie e lo scarto tra quelle ufficiali fornite dal governo messicano e quelle delle organizzazioni dei diritti umani è enorme. Nel 2003 la Corte Internazionale richiama lo stato di Chihuahua per non aver affrontato i ‘femminicidi’ e le sparizioni, negli anni che seguiranno l’ONU e Amnesty International si recheranno a Ciudad Juárez per esaminare la situazione. Il contesto messicano è, per molti e noti versi, già di per sé ricco di problematiche. La corruzione è difatti una delle piaghe più profonde e radicate, soprattutto nell’ambito di quelle istituzioni che dovrebbero tutelare i cittadini, quali forze dell’ordine e burocrazia. Questi fattori pongono un non indifferente limite sia al corretto svolgimento delle indagini, sia alla volontà di fare giustizia. Il numero di scomparse, stupri, e violenze di ogni tipo, è minimizzato sia dalla polizia juarense che dalla magistratura. Spesso le vittime stesse vengono addirittura colpevolizzate di passeggiare in luoghi isolati, bui, e in atteggiamenti non opportuni.

Qualora si sia tentato, da parte di un qualche avvocato, giudice, o giornalista, di indagare più a fondo la questione, non sono mancate minacce di morte aventi lo scopo di costringere all’abbandono delle indagini. Dinanzi ad un qualche accenno di interesse verso omicidi e scomparse, i corpi delle vittime svaniscono nel nulla, corrosi dall’acido attraverso quello che viene chiamato ‘lechada’.

Le croci rosa

Conseguentemente ad una pressoché totale assenza, negligenza, o collusione degli organi statali competenti, sono le famiglie delle cosiddette desaparecidas che, attivandosi in delle associazioni oppure ong, fanno si che venga fatta luce sulla sparizione delle figlie, sorelle, madri. La loro voce è riuscita ad emergere, rompendo il muro di silenzio all’interno di un clima domato dall’illegalità e dall’indifferenza. Importanti passi avanti sono stati compiuti soprattutto riuscendo a porre la questione all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale e quindi delle istituzioni straniere. Di tali organizzazioni la più nota è stata senz’altro ‘Nuestras Hijas de Regreso a Casa’ (Le nostre figlie di ritorno a casa), fondata nel febbraio 2001 dall’insegnante Marisela Ortiz Escobe (assassinata nel dicembre 2010) e da Norma Andrade, rispettivamente insegnante e madre di Lilia Alejandra Garcìa Andrade, rapita, torturata, ed uccisa nel 2001 all’età di sedici anni.

Le croci rosa sono divenute il simbolo della lotta. Quelle stesse croci che svettano nel panorama desertico di Ciudad Juárez. Ognuna di esse reca il nome di una giovane donna scomparsa o uccisa, l’ennesima vittima divenuta parte di un ormai lungo elenco, quello delle desaparecidas. Nessuna di loro farà più rientro a casa, e, al posto di una semplice croce, meriterebbero certo solamente giustizia.