Libia 2011: quando la rivoluzione è popolare e anche donna. Alcuni dei volti della rivoluzione libica raccontati nell’ultimo libro di Farid Adly
di Alessandro Pagano Dritto

La copertina del libro di Farid Adly, La rivoluzione libica. Dall’insurrezione di Bengasi alla morte di Gheddafi, il Saggiatore, Milano, 2012, 15 euro.
La data non era stata scelta a caso. Il 20 agosto era l’anniversario della battaglia di Badr, dove secondo il Corano Maometto affrontò le legioni di La Mecca. E il 20 agosto 2011 sarebbe iniziata la liberazione di Tripoli, Libia, che fu annunciata da un lancio di volantini ad opera di alcuni aerei alleati in volo sulla città. Erano volantini bilingui, in arabo con traduzione in inglese.
Questo è uno degli aneddoti di cui è ricco l’ultimo libro di Farid Adly, La rivoluzione libica. Dall’insurrezione di Bengasi alla morte di Gheddafi (Il Saggiatore, Milano, 2012, pp. 227, 15 euro, prefazione di Guido Olimpio).
Il sottotitolo potrebbe trarre però in inganno, così come le prime righe di questa recensione. Chi si aspettasse di leggere un libro sulle vicende militari che dall’insurrezione di Bengasi del 17 febbraio 2011 portarono il 20 ottobre dello stesso anno alla morte di Gheddafi nella cittadina di Sirte resterebbe deluso. Il libro di Adly è ben di più: un vero e proprio manuale di viaggio nei meandri della rivoluzione e della stessa Libia, delle sue strutture sociali e culturali. E anche tra i suoi stessi cittadini, la cui vita fu sconvolta da quei mesi di guerra.
Prima, però, bisogna fare i conti con l’autore. Farid Adly, libico, non esita certo a mostrare al lettore la sua posizione nei confronti di Muammar Gheddafi, della sua famiglia e della sua Libia verde, nata nel lontano 1969. La condanna è netta e Muammar Gheddafi diventa nelle pagine di questo libro il «criminale macellaio» (p. 96), senza troppi giri di parole.
Ad un certo punto il giornalista si lascia addirittura andare a quella che sembra essere una confessione, di colpa, al lettore: «Anch’io – scrive – come molti giovani libici di allora ho occupato il Consolato libico a Milano e ho distrutto la gigantografia di re Idriss [deposto da Gheddafi e dagli altri Ufficiali Liberi l’1 settembre 1969, Ndr]. Ma già nel 1973, l’Unione generale degli studenti libici che guidavo ha occupato l’Ambasciata libica a Roma per protesta contro l’impiccagione, nell’atrio dell’Università di Bengasi e per di più senza processo, degli studenti che chiedevano libertà e rappresentanza. La sinistra libica è stata cancellata con uccisioni e detenzioni, e in alcuni casi anche con la compravendita delle coscienze, mentre il mondo restava in silenzio. È stata anche colpa nostra, perché non siamo stati capaci di comunicare e tessere relazioni e abbiamo vissuto l’azione di opposizione in forme organizzative frammentarie» (p. 133).
Come ammette già Guido Olimpio nella sua prefazione, il libro contiene molto materiale su cui riflettere, e questo costringe il recensore a una scelta.
Una strada possibile è quella di raccontare i volti della rivoluzione.
Che quella libica sia stata una rivoluzione di popolo, alcuni analisti o commentatori tendono a negarlo. Adly lo sa, ma la pensa in modo radicalmente diverso. Suo è infatti il paragone con la Resistenza italiana. Scrive: «Prima di tutto, quella libica non è stata una guerra civile, come sostengono alcuni analisti: è stata una resistenza popolare contro un tiranno, la sua famiglia, i suoi miliziani e mercenari. È perfettamente paragonabile alla Resistenza italiana contro il regime mussoliniano e l’occupazione nazifascista» (p. 127).
Nessun timore, insomma, a parlare di fenomeno di massa: ne fu coinvolta la società in tutti i suoi livelli.
Sorprenderà forse qualcuno sapere che molti dei volti di questa rivoluzione sono volti femminili. Anche le donne infatti, sostiene Adly, hanno conosciuto dopo gli eventi del febbraio 2011 una rivoluzione nella rivoluzione.
Nella Libia prerivoluzionaria, dice Adly, donne e uomini tendevano a condurre vite separate in ambienti appositamente strutturati, con le case costituite da doppi ambienti per lui e per lei; la donna, una volta sposata, era preferibile si occupasse solo della vita domestica e spesso rinunciava al lavoro. L’unico luogo in cui questa separazione non avveniva era l’università, che per questo motivo era di frequente nel mirino della stampa governativa.

Siham Sergewa. Psicologa, ha raccolto le testimonianze di moltissime donne libiche nei campi rifugiati di Tunisia ed Egitto, denunciando gli stupri di cui era venuta a conoscenza.
La rivoluzione costringe la donna a cambiare le proprie abitudini. Accanto a una minoranza di guerrigliere, che pure ci sono state, la maggioranza delle donne si trova nelle retrovie, fa vita comune per supportare i gruppi armati, nella Bengasi ormai vuota delle forze lealiste le donne si occupano di orfani e feriti e sono soprattutto giovani universitarie quelle che sotto la direzione del proprio rettore organizzano il Centro informazione del Comitato Nazionale Transitorio (CNT).
Tra le tante vicende femminili della Libia rivoluzionaria raccontate da Adly spiccano quelle di Siham Sergewa, Ghidaa Al Twati e Iman El Obeidy: una psicologa, una giornalista e una semplice cittadina di Tripoli.
La prima, Siham Sergewa, raccolse numerose testimonianze di donne libiche nei campi profughi tunisini e egiziani e denunciò gli stupri che molte di loro dicevano di aver subito ad opera di miliziani lealisti. Un lavoro molto simile era stato svolto anche da un medico di formazione tedesca, Khalifa Al Sharkassi, ma entrambe le ricerche ricevettero delle critiche, che Adly giudica superficiali e affrettate: non terrebbero infatti conto «della difficoltà delle donne a denunciare le violenze subite» (p. 109).

Iman El Obeidy. Cittadina tripolina, ha denunciato alla stampa gli abusi subiti ad opera di miliziani lealisti. Queste dichiarazioni le sono costate il carcere e poi la fuga all’estero, ma non l’appoggio costante della famiglia.
In questo scenario va inserita la vicenda della tripolina Iman El Obeidy, che denunciò anche lei gli abusi subiti, ma di fronte alle telecamere e ai giornalisti della stampa internazionale. Iman fu interrotta dai lealisti e incarcerata. Secondo quanto riferisce Adly la famiglia ricevette proposte di denaro in cambio della ritrattazione e del silenzio, ma le rifiutò andando invece orgogliosa del comportamento della ragazza. Dalla città natale di Tobruk molti giovani si dissero disponibili a sposarla per lavare col matrimonio l’onta di quello stupro. Grazie all’aiuto di alcuni ufficiali compiacenti, Iman riuscì a evadere e fuggire in Tunisia e poi in Qatar, dove però ebbe ulteriori noie a causa del «suo comportamento da donna libera e colta che non si sottomette alla volontà maschile» (p. 111). In ogni caso questo suo comportamento fu una rivoluzione nella rivoluzione, se si tiene conto che nella Tripoli della guerra un padre arrivò a uccidere le figlie che erano state stuprate.
Ghidaa Al Twati, infine, la prima a introdurre in Libia una web radio, era una giornalista cresciuta nell’alveo della stampa governativa, che dopo il 2004 aveva conosciuto relative aperture in un piano di più generale e cauto riformismo: a guidarlo, il figlio e probabile successore di Muammar Gheddafi, Saif Al Islam. All’inizio dell’anno Ghidaa si era occupata delle rivoluzioni in Tunisia ed Egitto, denunciando ben presto pressioni da parte del governo. Quando qualcuno ruba i suoi dati informatici e comincia a usare la sua identità a sproposito, minaccia di darsi fuoco pubblicamente sulla Piazza Verde, la piazza della rivoluzione gheddafiana.
Molti altri, femminili e maschili, sono i volti che si incontrano tra le pagine del libro. Se ne citerà qui un altro solo, proprio per la peculiarità di essere un non-volto. Si faceva chiamare Qannus Trabulus, «Cacciatore di Tripoli»: venticinque anni, agiva nella città col favore della notte, spesso con un compagno come lui a volto coperto, poi postava in rete i video delle sue azioni. Questi datano dal 21 maggio all’8 giugno 2011. Pare sia stato arrestato il 17 luglio. Nessuno ne ha saputo più nulla.
Come si è già detto, molte altre sono le questioni che Farid Adly tocca nel suo libro, questioni valide per la Libia, per il Medio Oriente, o anche per tutto il mondo.
Piace qui concludere con una frase, che potrebbe essere un esempio di quest’ultimo tipo di questioni:
«Democrazia – scrive Adly – non è soltanto andare a votare, seguire i dibattiti in tv e fare qualche chiacchierata con gli amici al bar; democrazia è partecipare alla costituzione dello Stato e renderlo vitale, tramite strutture collettive di base come partiti, sindacati e organizzazioni della società civile» (p. 182).
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