Articolo 18 e riforma del lavoro: i giudici sono già con i lavoratori. Incostituzionalità dietro alle porte
di Andrea Gentili
Da decreto di legge a disegno di legge: la riforma del lavoro divide il Paese e il Parlamento, coinvolgendo sindacati e anche il Presidente Napolitano. I partiti difatti non hanno fatto una piega quando a novembre si è trattato di far passare gli 11 decreti per il Salva Italia, urgenti per definizione, tra cui pure l’innalzamento dell’età pensionabile. Ma tra i punti della lettera del 5 agosto della BCE al Governo si leggeva a chiare lettere: “dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro”.
Signor sì signore è la risposta dell’esecutivo italiano, il 26 ottobre scorso: “Entro maggio 2012 l’esecutivo approverà una riforma della legislazione del lavoro funzionale alla maggiore propensione ad assumere e alle esigenze di efficienza dell’impresa anche attraverso una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato.”
In due parole: articolo 18. Che però è un boccone ben più amaro di qualsiasi altro, anche più delle pensioni. La nuova riforma del lavoro comprende tra i suoi punti la modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, un totem pressoché intoccabile, che garantisce il diritto al reintegro nel posto di lavoro a chi viene licenziato senza giustificato motivo, o senza giusta causa (il caso di licenziamenti discriminatori) nelle aziende con più di 15 dipendenti. Già in passato altri avevano provato a toccar con mano la statua sacra. Nel 1985 fu il Cnel ad approvare un documento della Commissione Lavoro nella quale si proponeva di limitare il diritto al reintegro ai soli lavoratori licenziati per cause discriminatorie nelle aziende con più di 5 dipendenti; per gli altri licenziamenti si suggeriva invece la riassunzione o l’indennizzo a scelta del datore di lavoro. La proposta però non trovò riscontro in Parlamento. Ci provò pure Berlusconi, per ben due volte, una nel 2001 e l’ultima nel 2010, proponendo nel suo secondo Governo una sospensione dell’articolo 18 per alcuni casi specifici per 4 anni, e nel suo ultimo Governo una modifica indiretta che andasse a mediare il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore al momento dell’assunzione in tutte le materie, comprese quella del licenziamento. Ora la palla è passata a Monti, il professore che non deve guardare in faccia nessuno, e per carità benché meno ai cittadini. Qualcosa però non va, e l’opposizione dei sindacati e la guerra aperta dichiarata dalla Camusso fanno fare marcia indietro al Governo tecnico: complici anche l’opposizione delle sinistre e del terzo polo, e il monito di Napolitano che ordina a Monti di non insistere con la fretta, la riforma del lavoro viene bloccata. O meglio dire, rallentata.
Niente più decreto legge allora, per il quale sarebbe servita solo la volontà del Governo, si procede con la classica proposta di legge, che deve prima passare tutto l’iter, almeno 4 mesi, tra Camera e Senato. Insomma quantomeno si arriverà alla fine di luglio, e considerando che in agosto il Parlamento va in vacanza e che a Palazzo Chigi le vacanze durano di più, per avere riscontri bisognerà aspettare settembre-ottobre. Ci sono speranze che non passi il procedimento giuridico?
Ben poche a dir la verità, anche perché Monti è già pure abbastanza scocciato di dover aspettare e già minaccia di passare lo scettro a qualcun altro, visto che il suo lavoro gli viene bloccato, e lui incollato alla poltrona non lo è. Sicuri tutti però che una volta passata l’analisi delle due Camere la nuova legge rimarrà tale? I motivi di incostituzionalità ci sono, e non sono pochi. Vediamo cosa cambierebbe con la nuova riforma per quanto riguarda i licenziamenti. Si espongono 3 casi:
1) Il licenziamento è dovuto a ragioni discriminatorie (sesso, religione, razza ecc.): il giudice lo annulla e il lavoratore viene reintegrato.
2) Il licenziamento è dovuto a ragioni disciplinari: spetta al giudice verificare la sussistenza del caso. In caso di infondatezza, il licenziamento viene giudicato illegittimo, e spetta al giudice stabilire se il lavoratore viene reintegrato in azienda o riceve un indennizzo (tra le 15 e 27 mensilità).
Il terzo punto è stato modificato da questa riforma e tratta il licenziamento per cause di natura economica. Mentre ora si prevede che i licenziamenti per natura economica, se giudicati insussistenti dal giudice sono annullati con il reintegro del lavoratore, il risarcimento del danno e la corresponsione dei contributi mancati, con la nuova riforma si prevederebbe che:
3) Il licenziamento è dovuto a motivi economici (crisi dell’impresa, la cessazione dell’attività e anche solo il venir meno delle mansioni cui era in precedenza assegnato il lavoratore): spetta al giudice verificare la sussistenza delle motivazioni. In caso di infondatezza, il licenziamento viene giudicato illeggittimo, ma al lavoratore spetterebbe solo un indennizzo (tra le 15 e le 27 mensilità).
Il motivo della possibile incostituzionalità sarebbe innanzitutto la disparità di trattamento, perché i licenziamenti economici per i quali il giudice potrebbe disporre solo un indennizzo, violerebbero l’articolo 3 della Costituzione. Questo perché il giudice infatti, qualora accertasse un licenziamento illegittimo, ad esempio, per questioni disciplinari o sindacali, potrebbe optare per il reintegro nel posto del lavoro o per un indennizzo, mentre nel caso di una ragione economica falsa, avrebbe solo una scelta obbligata, quella dell’indennizzo. Scrive un documento ufficiale della Magistratura Democratica: «Per andare incontro alle esigenze e richieste del mondo imprenditoriale, la riforma Monti trasforma il diritto al lavoro in un indennizzo, un costo che le aziende potranno preventivare e monetizzare. […] Che tutto questo possa conciliarsi con l’art. 41 comma 2 della Costituzione (“l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.” ndr) e, prima ancora, con il lavoro come fondamento della Repubblica democratica (art. 1 ndr), con la dignità del lavoro e dei lavoratori, sembra davvero impossibile.»
E come afferma il direttore di Panorama Giorgio Mulè: «non è necessario essere esperti di diritto per capire che, se mai venisse varata la legge, la Corte Costituzionale sarebbe investita dai ricorsi sollevati dagli stessi giudici».