Omosessualità, tra religione e libertà di espressione. Il caso di Angelo Antinoro, un cittadino attivo
di Leonardo Sartori
«Quanti di voi sono sicuri che i vostri figli siano eterosessuali?» con questa domanda Angelo Antinoro, studente di 22 anni che vive a Milano, ha suscitato repulsione tra i presenti al convegno sulla ‘famiglia tradizionale’ tenutosi lo scorso 17 gennaio presso Palazzo Lombardia.
Angelo potrebbe essere uno studente come molti altri, che si trova ad affrontare il proprio orientamento sessuale in un contesto sociale talvolta difficile. Ne abbiamo parlato direttamente con lui.
Angelo, il tuo intervento al convegno ha avuto molta visibilità, ed è stato apprezzato da molti tuoi coetanei, e non. Ti definisci un attivista?
Per quanto riguarda l’attivismo LGBT, io non ho mai fatto parte di gruppi o associazioni, soprattutto per mancanza di tempo. Non mi considero un attivista, bensì un cittadino attivo. Ho sempre cercato di portare avanti le mie posizioni e le mie idee nei miei contesti quotidiani. Non mi nascondo né dico menzogne a persone con cui vivo, lavoro o studio.
Più generalmente, nel contesto universitario, invece, mi sono sempre impegnato, fino ad arrivare al CNSU, che mi ha assorbito moltissimo tempo in questi anni.
Hai dichiarato di essere cristiano cattolico. Come hai vissuto la scoperta del tuo orientamento sessuale in rapporto alla tua fede religiosa?
Come molti dei miei coetanei italiani, sono cresciuto con delle chiavi interpretative della realtà molto vicine a quella cristiana, densa di concetti quali il peccato e l’amore cristiano. Durante l’adolescenza, alcuni interrogativi più complessi hanno difficoltà a trovare risposta quando la fede, quale quella cattolica, dà risposte molto nette. Infatti, quelle del catechismo sono risposte nette, ma che bisogna leggere alla luce del messaggio d’amore.
Ci sono modi alternativi di affrontare il tema. La riflessione su questi temi all’interno della Chiesa cattolica non è esattamente partita. Non è neanche detto che una riflessione sia propedeutica ad un cambiamento di direzione.
Alcuni versetti della Bibbia sono molto netti, come il Levitico, ma ritengo poco consapevole seguire tassativamente ogni verso della Bibbia, sarebbe assurdo e non attuabile.
Poi però abbiamo il catechismo, ben più recente, che nega invece la possibilità di vivere in una dimensione di coppia omosessuale.
Ora, come giovane, non mi mancano le possibilità di scoprire che diverse confessioni hanno dato risposte diverse alla stessa domanda. Non dico che la questione all’interno della Chiesa cattolica debba essere riletta, ma perlomeno può essere riconsiderata. Capisco la difficoltà di una Chiesa che ha l’aspirazione di essere universale di non poter affrontare certi temi con la stessa velocità di Chiese più piccole. Contemporaneamente però dico che certe risposte negano la realtà. Considerando la convivenza trentennale di una coppia dello stesso sesso all’interno della quale ci si dedica l’una all’altra, l’idea che essa non abbia un valore alla luce del messaggio cristiano, mi sembra un po’ negazionista come approccio.
Ci tengo a sottolineare che finché ci sarà un avvicinamento alla fede e un’educazione alla religione sin da piccoli, la possibilità che durante l’adolescenza questo tema sia vissuto serenamente dalla persona interessata, dipende anche dalla quantità di apprensione che la persona vive nel discutere queste questioni con se stessa. Sentire lo spettro dei peccati mortali o della dannazione eterna su un tema che fa parte della vita di qualsiasi adolescente, è un peso ingiusto che grava sulle persone non eterosessuali, ostacolando il percorso della conoscenza di sé.
Quindi non si tratta di un problema di fonti ecclesiastiche, bensì di una questione di catechismo.
Il problema è che oggi si crede di aver avviato un dialogo, ma non lo si sta veramente avviando. Anche dopo quanto successo al convegno, l’unica risposta che ho ricevuto è stata, di fatto, un semplice rimando, forse un po’ sbrigativo, a quanto già affermato dal catechismo della Chiesa cattolica. Si rifiuta dunque di parlare di questi temi in modo limpido e, soprattutto, concreto, prendendo atto della complessità della vita e della storia delle persone, così da poter rispondere in modo puntuale alle domande che esse pongono.
Quindi auspicheresti un cambio del catechismo alla luce di una rivisitazione più attuale?
Io auspicherei come minimo la conoscenza di questa realtà. Oggi la Chiesa non conosce pienamente la realtà delle coppie dello stesso sesso. Una risposta di apertura sarebbe quella che invita a conoscersi e a confrontarsi.
Durante il convegno organizzato presso la sede della Regione Lombardia, hai affermato di essere stato offeso per esserti stata negata la libertà di parola. Credi che in Italia il problema sia più la libertà di espressione o l’omofobia? O entrambe in quanto inscindibili?
Io mi sto confrontando quotidianamente su diversi temi, come quelli universitari. Una caratteristica, che purtroppo è un po’ pregnante nella situazione italiana attuale, è quella della fobia, che si caratterizza per essere un fenomeno irrazionale che si produce quando non c’è dialogo. Ciò si può verificare non solo su posizioni complesse come quelle della famiglia, ma su qualsiasi posizione che prevede un confronto.
La mia posizione sul dibattito del 17 gennaio, non voleva essere quella di definirlo omofobo (o omofobico) a priori. Come facevo a saperlo? Non mi hanno dato neanche una risposta, ed è dalla risposta che si può comprendere ed eventualmente definire la posizione dell’altro.
Se non omofobico, possiamo quindi considerarlo fobico?
Sicuramente fobico. La reazione esagerata che hanno manifestato i presenti è anche frutto della fobia, della paura, che con una domanda potessi minare o mettere in dubbio le loro posizioni. Se poi all’essere fobici si aggiunge anche l’essere anti-democratici… Io mi sono già risposto. La cosa più brutta che ho provato è stata quella di trovarmi, quando mi hanno spento il microfono, davanti ad un muro, senza poter difendermi, o esprimere le mie posizioni. Le fobie si superano solo con una buona dose di dialogo.
Rimanendo in questo contesto, un tema caldo di oggi è la cosiddetta legge contro l’omofobia. Le critiche degli oppositori tendono ad avvalorare la libertà di espressione. Essendo anche uno studente di giurisprudenza, in che misura la legge contro l’omofobia costituisce una limitazione alla libertà di espressione?
Ho letto il ddl Scalfarotto. Va ad integrare la legge Reale-Mancino, tenendo in considerazione reati motivati da omofobia e transfobia. Il dibattito fu sollevato da persone con opinioni diverse in tema di omosessualità e adozioni. Temono di vedersi negata la loro libertà di opinione. Io penso che, fortunatamente, la libertà di espressione continui ad essere garantita all’interno della nostra Costituzione. Cosa diversa è per tutti quei reati, quei comportamenti già oggi lesivi della libertà altrui, e penalmente rilevanti, messi in atto con motivazioni omofobiche e transfobiche.
Oggi la legge Mancino aggrava la punizione laddove i reati siano collegati a motivi razziali, etnici o religiosi. Il ddl Scalfarotto prende in considerazione anche la dimensione dell’identità sessuale. E credo che il nostro Paese ne abbia bisogno. Altrimenti cancelliamo l’intera legge Mancino, ma non credo che l’Italia sia così libera dalla paura del diverso da non avere più bisogno di una legge Mancino.
C’è chi parla di discriminazione al contrario. Credi che sia un rischio plausibile?
Quando la discriminazione in generale assume i connotati di una limitazione di libertà altrui è sbagliata. In Italia abbiamo una norma sull’apologia del fascismo, l’unica norma che ponga in essere un reato di opinione, poiché discrimina il fascismo e gli ideali anti-democratici.
Laddove coloro che la pensano diversamente sull’omosessualità dovessero diventare una minoranza di opinione non la chiamerei invece discriminazione, bensì bellezza del contraddittorio.
Se facciamo riferimento, ad esempio, al caso dei sindaci francesi che si opponevano all’applicazione della legge Taubira sui matrimoni omosessuali, invocando le loro opinioni o credo religioso… Sono discriminati? Beh, una caratteristica dei pubblici uffici è proprio quella di essere impersonali, pertanto non penso si possano considerare discriminati.
Secondo la tua opinione, i Pride possono essere considerati uno strumento politico efficace? Favorevole o contrario?
È una domanda che mi sono posto anch’io. Poi quando sono arrivato a Milano sono andato al Pride con i miei amici di Università, eterosessuali e non. Non so dirtelo con certezza, ma ho la percezione che le persone che partecipano siano sempre più eterogenee, e non più di nicchia, e con un’eterogeneità anche nei fini. Quindi i Pride hanno la potenzialità di diventare uno strumento importante. Non è più il diretto interessato a portare avanti una campagna; il Pride vede l’intera popolazione in piazza, composta da mamme, papà, compagni di classe, colleghi. Lo stesso è avvenuto con la comunità di colore negli Stati Uniti: quando anche la comunità bianca è scesa in piazza, la comunità afro-americana ha ottenuto più diritti, in quanto non si trattava più di una richiesta di categoria.
C’è chi pensa che partecipare ad un Pride significhi alzarsi la mattina e andare a comprare piume e glitter. No, andare ad un Pride significa andare a lavorare, e poi scendere in piazza, per poi tornare a casa la sera e preparare la cena per i figli.
Allo stesso tempo non credo sia uno strumento sufficiente, alla fine è solo un’occasione durante l’anno. Per questo credo sia importante trovare il coraggio di alzarsi da una poltrona e fare una domanda ad un convegno, indipendentemente dalla circostanza.
Twitter: @sartori_91