Eternit: tre sentenze, una prescrizione e nessun colpevole
di Giacomo Pellini
L’azienda Eternit è un colosso mondiale nella trasformazione dell’amianto. Uno dei principali stabilimenti dell’azienda apre nel 1907 a Casale Monferrato, vicino ad Alessandria, in via Oggero. Si trattava della più grande fabbrica di lavorazione dell’amianto a livello europeo. L’azienda è stata di gran lunga il principale motore economico per la piccola cittadina piemontese, e nel corso degli anni ha dato lavoro a oltre 5000 persone, rendendo Casale uno dei principali poli produttivi della zona. Allo stesso tempo però le polveri di amianto hanno mietuto 1800 vittime, tra operai e familiari, arrivando addirittura a decimare il Comune alessandrino.
Nel nostro Paese il numero complessivo delle vittime dell’amianto ammonta a oltre 2800 persone. Studi condotti nel corso degli anni ’60 e ’70 hanno mostrato come la polvere di amianto, derivante perlopiù dall’usura dei tetti, provochi sia fibrosi (ossia cicatrizzazione del tessuto polmonare), sia una grave forma di tumore polmonare, il mesotelioma pleurico, un tumore della pleura (la membrana che ricopre il polmone) particolarmente maligno.
Nel 1976, la Eternit AG (la sezione svizzera dell’azienda) diffonde una circolare presso i suoi stabilimenti in cui avvertiva i dipendenti della pericolosità delle polveri di amianto. Tale circolare però non arriverà mai ai dipendenti dello stabilimento piemontese.
Nonostante gli studi avessero dimostrato che la respirazione delle fibre di amianto fosse particolarmente dannosa per l’apparato respiratorio se prolungata nel tempo, i vertici dell’azienda decidono di continuare la produzione dell’Eternit. Lo stabilimento di Casale chiude solamente nel 1986, a causa di un fallimento societario. La lavorazione e produzione dell’amianto sono state dichiarate illegali in Italia nel 1992. Nonostante ciò, nel bel Paese continuano a esservi ancora molti comuni inquinati dall’amianto, non essendo stati oggetto di bonifica. Inoltre, il mesotelioma pleurico può avere un periodo di incubazione di oltre 30 anni: coloro che sono stati esposti alle polveri di amianto negli anni ’80 corrono tutt’oggi dei gravi rischi per la salute.
Nel 2009 la Procura di Torino avvia le indagini e cita a giudizio due dirigenti, il magnate svizzero Stephan Schmidheiny ed il barone Jean Louis Marie Ghislain de Cartier de Marchienne. I fatti contestati ai due dirigenti risalgono al periodo 1952-2008, e, nel particolare, i Pm chiedono che i due imputati vengano condannati per disastro ambientale doloso e omissione volontaria di cautele per i dipendenti sui luoghi di lavoro. Questo viene considerato il più grande processo per disastro ambientale mai svolto in Europa, con quasi 6400 persone costituitesi parte civile e oltre 2800 vittime contestate. All’epoca, infatti, nel suolo italiano si trovavano altri tre stabilimenti: Cavagnolo, Rubiera e Bagnoli.
La sentenza di primo grado del processo, emessa nel febbraio del 2012, viene definita dall’allora Ministro Balduzzi come “storica”: Schmidheiny e de Cartier vengono condannati a 16 anni ciascuno. La procura chiedeva invece 20 anni di reclusione per ognuno dei due imputati. I pm dell’accusa, capeggiati da Raffaele Guariniello, hanno dimostrato come i dirigenti avessero continuato a mantenere le fabbriche operative nonostante fossero a conoscenza della pericolosità dell’amianto.
Nel giugno del 2013 arriva anche la sentenza di appello, la quale aggrava la pena inflitta in primo grado all’unico imputato rimasto, Schmidheiny, da 16 a 18 anni (De Cartier è morto nel 2013 a 92 anni). La corte inoltre prevede risarcimenti del valore di oltre 90 milioni di euro, da destinare sia ai familiari delle vittime che agli enti locali.
Nel novembre del 2014 la sentenza della Suprema Corte di Cassazione annullerà, senza rinvio, la sentenza di condanna per Schmidheiny, dichiarando prescritto il reato di disastro ambientale, e annullando anche i risarcimenti, tra le lacrime e l’indignazione dei familiari delle vittime. Secondo il sostituto procuratore Iacovello, «Non essendo stati contestati gli omicidi, non si può legare il disastro ambientale alle vittime, il disastro è prescritto per la chiusura degli stabilimenti nell’86 e pertanto la condanna va annullata». Secondo Iacovello contestare il reato di disastro sarebbe stato un errore, in quanto le migliaia di morti sarebbero sopraggiunte alcuni decenni dopo la chiusura dello stabilimento.
La battaglia per l’altro reato, quello di omissione volontaria di cautele, però continua: «Non bisogna demordere – sostiene il Pm di Torino Guariniello – non è una assoluzione. Il reato c’è. E adesso possiamo aprire il capitolo degli omicidi».