The Banned Books Week, quando libri e fumetti “sporchi” sono censurati
di Alessandro Pagano Dritto
Su twitter @paganodritto
Nell’anno del suo centenario il foglio statunitense New Republic rimette in circolo in questi giorni alcuni dei suoi migliori pezzi. In uno di questi, datato 2 aprile 1930, un anonimo articolista descriveva, non senza un certo sottile umorismo, il suo incontro con il censore dello Stato del New England: un uomo a modo, ben vestito e dotato di una buona cultura, laureato in lettere. Attraverso lui passavano, per entrarvi o rimanervi fuori, tutti i libri destinati a circolare nel territorio nazionale. «Faccio questo lavoro da sei anni – dichiarava il censore all’articolista – L’uomo giusto nel posto giusto. Credo di aver letto più libri sporchi di qualsiasi altro uomo nel New England e, se volessi, potrei mettere in piedi la più grande collezione di libri erotici di questo paese. Perché, negli ultimi due anni, ho confiscato 272 titoli differenti – centinaia di volumi – e li ho letti tutti».

Voltaire, Candide, 1759.
Cinquantadue anni dopo questo incontro nasceva la Banned Books Week, la settimana dei libri proibiti: era il 1982 e l’iniziativa intendeva valorizzare la libertà di espressione e di opinione ricordando tutti quei libri la cui circolazione veniva «sfidata». Veniva e viene ancora oggi, come si legge nel sito, anche negli ambienti scolastici, perché ancora oggi si registrano casi di libri la cui circolazione viene ufficiosamente limitata o ostacolata: la American Library Association, citata nel sito, riporta che più di 11.300 sono stati, appunto, i libri «sfidati» dal 1982 al 2013 e di questi solo 307 nell’ultimo anno. I dati sono raccolti da un Ufficio della Libertà Intellettuale (Office of Intellectual Freedom) che però avvisa che anche in questo caso – come in molti altri casi diversi di cattiva gestione delle libertà individuali – c’è molto sommerso: solo una minima parte delle proibizioni librarie viene regolarmente denunciata ed è quindi esponibile in dati.
Quali che siano i numeri effettivi, l’analisi della censura è sempre molto interessante e dice parecchio sulla società che la applica. Tra i dieci libri più osteggiati del 2013 negli Stati Uniti risulta infatti, al quarto posto, un libro che anche in Italia ha fatto discutere e ha scalato le classifiche: si tratta di Cinquanta sfumature di grigio (Fifty Shadows of Grey, 2011) di E. L. James, al secolo Erika Leonard, bandito per le scene erotiche contenute nelle sue pagine così come, si legge, per il linguaggio offensivo usato dai suoi personaggi e per alcuni riferimenti religiosi che vi sarebbero contenuti. Se si dà però un’occhiata alle motivazioni riportate sotto i titoli di queste prime dieci opere si vedrà che argomenti come la violenza, il sesso, la religione, l’utilizzo di droghe e il razzismo sono ancora considerati tabù dai censori del giorno d’oggi e sono alla base degli ostracismi.
Nell’ufficio del censore del New England quell’antica discussione tra l’uomo e l’articolista si dilunga. A un certo punto, dopo aver incrociato un libro «troppo blasé» dal titolo The Art of Eastern Love, «l’arte dell’amore orientale», i due iniziano a parlare del Candido di Voltaire, romanzo filosofico del 1759 che il censore non è ancora riuscito a far bloccare; cosa che, precisa, non capita spesso. «Da anni lasciamo passare questo libro – racconta – C’erano così tante edizioni, di tutte le misure e di tutti i tipi, alcune illustrate e alcune disadorne, che pensavamo che il libro fosse a posto. Poi uno di noi ha cominciato a leggerlo. È un libro lurido».

Jack London, The Call of the Wild, 1903.
Attraverso il sito della Banned Books Week è possibile aggirarsi come in una libreria tra i molti titoli di libri banditi e tra questi si scopre che alcuni sono particolarmente famosi e, forse, insospettabili. Si va dalle narrative Avventure di Huckelberry Finn di Mark Twain (1884) – che pare molto gettonato ancora oggi – accusato un anno dopo l’uscita della prima edizione di essere «spazzatura buona sono per gli slums» e preso in causa per la frequente ripetizione della parola «nigger», allo storico Seppellite il mio cuore a Wounded Knee di Dee Brown (1970), che abbraccia il punto di vista dei nativi americani su una parte della storia degli Stati Uniti. Nel 1974 un ufficiale di un distretto scolastico del Wisconsin bandì quest’ultimo libro avanzando questa semplice giustificazione: «Se c’è la possibilità che qualcosa generi controversie, allora perché non eliminarlo?». In mezzo, per i più vari motivi, altri romanzi e altri libri storici, come l’Autobiografia di Malcolm X, di Malcolm X e Alex Haley (1965), Per chi suona la campana di Hernest Hemingway (1940), Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (1953), Via col vento di Margareth Mitchell (1936), Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald (1925). Il gusto personale di chi scrive queste righe sceglie, come tributo all’autore anche lui finito nell’elenco, Il richiamo della foresta di Jack London (1903), bandito in Italia durante il fascismo, in Jugoslavia in un’epoca che il sito non precisa e messo al rogo nella Germania nazista.
Così il censore del New England spiegava la necessità del suo operato: «Questa roba va a finire nelle mani di giovani ragazzi e ragazze e cosa succede? Sono troppo innocenti e troppo immaturi per affrontarla allo stesso modo in cui possiamo affrontarla lei ed io, così le loro menti vengono contagiate. Perché a volte è il contatto dell’innocenza con queste cose sudicie che fa naufragare il ragazzo nelle cattive abitudini per tutta la vita».
Parole che avrebbero trovato la piena adesione, nemmeno una trentina d’anni dopo, dello psichiatra Fredric Wertham, che negli anni Cinquanta sarebbe stato destinato a influenzare per lungo tempo, loro malgrado, gli autori dei fumetti statunitensi.
Non sono stati infatti solo i libri, romanzeschi o storici che siano, a rimanere a volte imbrigliati nelle maglie della censura: come i libri, non lo sono – nemmeno oggi – anche i fumetti, che anzi risultano proprio tra le opere più bandite. Al primo posto della classifica c’è così, nel 2013, la serie di Captain Underpaints di Dav Pilkey, alla quale è stata di conseguenza dedicata la copertina annuale realizzata appositamente per la settimana: Pilkey ha raffigurato l’eroe della serie, appunto Captain Underpaints – un neonato in mutande – mentre vola con una mantellina rossa alla Superman sui cieli della città e legge un libro. Heroes read banned books, recita la scritta aggiunta a mo’ di titolo: Gli eroi leggono i libri proibiti.

Copertina della Banned Books Week 2014, dedicata al fumetto Captain Underpaints di Dav Plikey. La scritta recita: “Gli eroi leggono libri proibiti”.
Judith Platt, quest’anno a capo della Commissione per la settimana dei libri proibiti della Association of American Publishers spiega così, alla giornalista Lynn Neary della National Public Radio, il primato di Captain Underpaints: «È perfido e ribelle, di sicuro irriverente e sfida l’autorità». E l’autore Dav Pilkey replica: «Non considero i libri così antiautoritari, ma ritengo sia importante, se pensi che qualcosa sia sbagliato, mettere in dubbio l’autorità – perché, sai, ci sono i cattivi anche nella vita reale e non sempre indossano mantelline e cappelli neri. Qualche volta sono vestiti come delle autorità. E i bambini hanno bisogno di sapere che è importante metterle in dubbio».
Brigid Alverson e Eva Volin hanno pubblicato in un articolo per lo School Library Journal una storia della censura sui fumetti negli Stati Uniti. È una storia che attraversa gran parte del Novecento e finisce ufficialmente nel 2011, quindi pochissimo tempo fa. Proprio all’inizio di questa storia compare il nome di Friedric Wertham, lo psichiatra autore nel 1954 di un libro fortemente critico nei confronti dei fumetti e della loro influenza sulla psiche giovanile: La seduzione dell’innocente (Seduction of the Innocent): Wertham sosteneva tra le altre cose che personaggi come Batman e Robin fossero un esempio sconveniente di amore omosessuale e che Wonderwoman desse alle ragazzine lettrici delle sue avventure un’idea sbagliata di quale fosse il ruolo della donna nella società. La validità della sua opera, come anche il New York Times ha riportato, è stata in anni recenti smontata, ma per anni Wertham fu comunque molto influente e fu anche questa sua influenza che contribuì alla nascita, nello stesso 1954, della Comics Code Authority (Autorità del Codice dei Fumetti, CCA), organismo della Comics Magazine Association che garantiva delle regole minime alle quali ogni fumetto doveva attenersi per essere approvato e quindi pubblicato. Naturalmente questo portò dei cambiamenti nel mondo dei fumetti; «bandendo violenza e allusioni sessuali, questo codice censorio era così restrittivo – scrivono gli autori del pezzo – che depurò completamente il contenuto dei fumetti americani per decenni. I gruppi che pubblicavano horror, gialli, storie d’avventura, fantascienza e altri generi che si rivolgevano a un pubblico più sofisticato furono tagliati fuori dal giro quasi dall’oggi al domani. Per la prima volta tutti i fumetti venivano scritti e pensati veramente solo per un pubblico di bambini». Col tempo, comunque, alcuni autori trovarono il modo di raggirare la censura: per esempio non vendendo i propri prodotti nelle edicole e usando quindi, scrivono sempre i firmatari del pezzo, «la loro arte per sfidare l’autorità». A qualcuno andò male e nel 1970 il quarto volume di Zap Comics fu il primo ad essere dichiarato osceno per legge. L’anno successivo però la Marvel Comics pubblicò alcuni numeri di Amazing Spider Man nonostante il parere negativo dato dalla ACC che non gradiva alcuni riferimenti alle droghe che vi erano contenuti. Per la censura sui fumetti fu l’inizio di una nuova era e di un lento declino che ottenne uno degli ultimi colpi nel 1984, quando la DC Comics, grazie ad alcuni accorgimenti di mercato, pubblicò il numero 29 di The Saga of the Swamp Thing senza il suggello grafico dell’organismo censorio. La CCA cessò di esistere nel 2011.

Vladimir Nabokov, Lolita, 1955.
Sempre per l’anno del suo centenario New Republic ha pubblicato una recensione d’annata del libro di Vladimir Nabokov Lolita (1955), salutato in tutto il mondo come un caposaldo della letteratura occidentale e in tutto il mondo noto per i suoi problemi di censura: il pezzo è datato 17 giugno 1957 e nonostante il recensore avesse dovuto leggere un’edizione purgata di una novantina di pagine, ciò non gli impedì di salutare in modo assai favorevole l’opera.
Oggi leggere Lolita negli Stati Uniti con le novanta pagine integrate non dovrebbe più essere un problema, tutti lo considerano un classico della letteratura da leggere in forma integrale. Ma ventisette anni prima della recensione il censore del New England tuonava in modo singolare contro i classici e la letteratura. Scriveva l’anonimo suo interlocutore e articolista:
“«Letteratura!» disse, e detta da lui questa era un’imprecazione di dimensioni straordinarie, aria fetida corrosiva, pronta ad esplodere. «Letteratura! Non mi parli di letteratura. O di classici». Non avevo mai sentito una parola che suonasse più mostruosa, sotto ogni punto di vista, di questa semplice – anche se controversa – parola: classici. Continuò: «Sì, lo so. La gente viene qui, chiama, scrive lettere e si prova a raccontarmi che una cosa è letteratura. Conosco l’argomento». Con aria da schizzinoso: «Non può eliminare questo libro, perché è parte del nostro patrimonio classico. Idiozie. Perché io ho gente che viene qui e mi dice che la Lisistrata di Aristofane è un classico. No, è un trattato di pederastia”.
Gli dissi che pensavo che le cose fossero un po’ più complesse di così. «No – disse seccamente – pederastia, questo è quanto. Ma ho avuto in mano libri peggiori di quelli chiamati classici. Libri di cui non ha mai sentito nemmeno parlare. Sa che cos’è un classico? No. Bene, glielo dico io. In tutta sincerità. Un classico è un libro sporco che qualcuno cerca di farmi passare».»