Scozia indipendente? No, Thanks!
di Riccardo Venturi
It’s no (thanks)! Lo storico referendum sull’indipendenza della Scozia dal Regno Unito si conclude come largamente previsto per mesi, fino ai sondaggi di questi ultimi giorni che hanno fatto tremare Westminster e Buckingham Palace: gli scozzesi hanno scelto di rimanere a tutti gli effetti con Sua Maestà, rispondendo negativamente alle sollecitazioni di Alex Salmond, leader del fronte indipendentista e Primo ministro dimissionario Scozzese. I risultati finali vedono trionfare il “No” con il 55,3% delle preferenze (equivalente a due milioni di voti), mentre il “Si” rimane fermo al 44,7% degli elettori (circa un milione e seicentomila voti).
Per una nazione che ha scelto di non diventare stato indipendente, rimane comunque il dato storico dell’affluenza, attestatasi intorno all’85%. Il racconto del 18 settembre scozzese è quello di un’incredibile festa democratica di condivisione: tutti partecipano, i cortei del “Si” e del “No” si sono ritrovati fianco a fianco. Edimburgo, durante tutta la lunga giornata del voto, è colorata di blu, bianco e rosso da Croci di Sant’Andrea e Union Jack che, alla luce dei risultati, non scoloriranno mai. Votano sedicenni e stranieri residenti, c’è la presenza di delegazioni indipendentiste provenienti da tutta Europa (catalani, corsi, veneti) e di inglesi saliti “beyond Up North” a far sentire la loro voglia di continuare un percorso comune. Sfilano uomini con kilt e cornamuse, persino cani con bandierine. Persone e famiglie di opinioni diverse si ritrovano fianco a fianco nei pub aperti fino all’alba per discutere e seguire lo spoglio; nella sconfitta dell’indipendentismo, il successo della Scozia nazione è da ritrovare in questa incredibilmente gioiosa maratona politica.
Il Premier britannico David Cameron tira un sospiro di sollievo e, a giochi fatti, anche lui sottolinea l’importanza del voto: “era un passo di democrazia che andava fatto”, sostiene, “uniti siamo migliori”. Oggi la Scozia e l’intero Regno Unito si sono svegliati con la voglia di ripartire insieme, ma anche con la consapevolezza che molto dovrà cambiare. I votanti del “No”, non sempre si sentono cittadini britannici caratterizzati da un devoto spirito unionista, al contrario, la maggioranza più moderata sul tema ha optato per lo status quo, avvalendosi degli argomenti considerati più logici e razionali e mettendo da parte l’orgoglio scozzese che ha contraddistinto i loro connazionali da William Wallace in poi. Cameron, in ticket con i leader degli altri principali partiti dell’isola (il laburista Ed Milliband ed il liberaldemocratico Nick Clegg), ha promesso un’ulteriore devolution di poteri, soprattutto in materia fiscale. Criticato per aver concesso troppo a Edimburgo in un momento di panico, è comunque considerato un passo necessario da fare per non alimentare più aspri sentimenti separatisti.
Il Premier si consola pensando che almeno non passerà alla storia come uno dei principali responsabili della disgregazione politica del Regno Unito, una delle tante accuse recapitate preventivamente al numero 10 di Downing Street dai suoi oppositori storici, compresi quelli interni al suo partito. In generale, sono state tante le obiezioni sull’efficacia della campagna del “No”, considerata troppo lontana dai sentimenti degli scozzesi, ma evidentemente vicina alla loro realtà quotidiana: i rischi relativi alle incertezze monetarie (e quindi sul mantenimento della sterlina o di un eventuale passaggio all’euro), la possibile fuga di capitali, l’instabilità dovuta ad un fisiologico periodo di riassestamento economico e sociale, i sicuri veti di molti governi indipendentismo-fobici ad un rapido reingresso nell’Unione Europea, hanno convinto un popolo dalle forti radici culturali proprie a sostenere il motto “better together”. Solo Gordon Brown, ex Primo ministro e politico laburista scozzese, ha saputo toccare le corde più profonde degli elettori, sfidando il nazionalista Salmond sul suo stesso campo; Brown ha infatti pubblicato una lettera aperta dove rimarca l’orgoglio di essere “nazione” e, allo stesso tempo, parte di un “regno unito” capace di combattere, morire e vincere insieme per secoli.
Dal canto suo, Salmond aveva puntato tutto sui crismi dell’irripetibilità di un’occasione storica di autodeterminazione, respingendo al mittente le critiche sulle difficoltà pratiche derivanti da una scelta di cuore non razionale. Nonostante per gli indipendentisti svanisca la concreta possibilità di gestire il petrolio del Mare del Nord in piena autonomia, il sogno non si interrompe bruscamente con l’annuncio dei risultati ufficiali. Salmond sottolinea come anche solo il dato dell’affluenza, legittimazione istituzionale di un forte sentimento nazionale scozzese, sia un chiaro segnale inviato dal nord a Londra sull’orgoglio del “suo” popolo, con il quale non si scherza. Adesso, per il “grande sconfitto”, il governo centrale dovrà comunque rivedere la divisione dei poteri con Holyrood. Proprio per questo motivo, gli indipendentisti criticano la mancanza di pianificazione dei politici inglesi, che avrebbero promesso un generico processo di devolution, solamente per conquistare all’ultimo minuto i voti degli indecisi; tuttavia, Salmond afferma che le divisioni dei tre principali partiti britannici sul tema non avranno l’alibi del referendum, comunque voce unitaria di una Scozia che richiede maggiori responsabilità decisionali.
Un sospiro di sollievo lo tirano i mercati, soprattutto le banche, memori delle difficoltà di questi ultimi anni e della centralità di Londra nei casi di interventi diretti e salvataggi. Nel resto del mondo, il referendum è stato seguito con grande interesse anche per ragioni politiche, come specchio di fratture interne ad altri paesi. La paura dell’emulazione dell’esempio scozzese da parte di altri movimenti indipendentisti, ha messo sullo stesso fronte i governi di Spagna, Turchia, Belgio. Persino la Cina ha monitorato la situazione, temendo possibili ricadute su Tibet e Xinjiang. In caso di vittoria del sì, inoltre, la Scozia avrebbe dovuto rinegoziare l’ingresso nell’UE e nella NATO, scontrandosi con le posizioni di quegli stati interessati all’indebolimento del vento separatista proveniente dal Mare del Nord. La paura di una progressiva disgregazione dell’Europa, già messa a dura prova da crisi economiche e gelosie sovraniste, ha portato Bruxelles ai massimi livelli di allerta. Solo la Russia, paradossalmente, ha sostenuto le istanze del Partito Nazionalista Scozzese: da sempre in prima linea contro le rivendicazioni delle minoranze interne, il Cremlino è riuscito a trasformare rapidamente le sue priorità politiche in seguito ai recenti sviluppi in terra ucraina, dove Putin è diventato paladino dell’autodeterminazione di Crimea e Novorossija.
I separatisti di tutta Europa vedono momentaneamente sfumare la spirale di entusiasmo venutasi a creare in Scozia, ma difficilmente il “No” sancito ad Edimburgo servirà a ridiscutere le domande di chi vuole decidere in piena indipendenza, senza accontentarsi di saltuarie concessioni autonomistiche da parte di governi centrali timorosi di uno smembramento. D’altra parte, gli scozzesi hanno mandato un messaggio al resto del continente: non è facile abbandonare per sempre l’idea di un retaggio nazionale che, dopo tre secoli, poteva iniziare a camminare nuovamente con le proprie gambe; ma se questo vuol dire avere la possibilità di difendere cultura e tradizioni, senza dover rinunciare ai vantaggi di rimanere uniti e non rassegnarsi a ridurre il proprio peso specifico nella comunità globale, allora dire “no, thanks” è possibile.