Diciotto storie di migranti che abbattono gli stereotipi
di Alessandro Pagano Dritto
Il fenomeno dei migranti che attraversano il Mediterraneo per raggiungere l’Europa, avendo spesso come prima meta l’Italia, sta raggiungendo negli ultimi mesi proporzioni importanti, tanto da indurre il Ministro degli Interni italiano Angelino Alfano a una serie di incontri con le controparti europee per decidere un controllo comunitario delle frontiere marittime: l’operazione Frontex Plus. Secondo le ultime dichiarazioni ufficiali questo passaggio da Mare Nostrum a Frontex Plus dovrebbe avvenire entro la fine del novembre 2014.
Intanto però migliaia di migranti continuano a raggiungere le coste italiane e numerosi sono quelli che non ci riescono perdendosi per sempre nel mare o ritornando cadaveri ai lidi dai quali erano salpati, spesso lidi libici: per dare un esempio delle cifre basti ricordare alcuni recenti comunicati della Marina Italiana che dichiarano di aver recuperato, tra il 22 e il 25 agosto così come tra il 29 e il 31, «quasi 4000» migranti, mentre il recupero di circa 170 corpi è stato di recente annunciato dalle unità guardiacostiere libiche.
Queste poche righe e questo sommario ritratto del fenomeno erano necessari per introdurre il libro di Fiorì Palmeri, L’Italia è un paese meraviglioso. Da Lampedusa a Schio, Thiene, al Vicentino i profughi raccontano le loro storie (Tipografia Menin, Schio, 2014, pp. 139, 14 euro). Non tanto per introdurlo da un esatto punto di vista cronologico, visto che il libro è stato pubblicato in aprile e le storie vissute prima che il fenomeno raggiungesse questi numeri, ma perché è bene che il lettore sia cosciente della continua attualità delle sue pagine.
Vi si raccontano, in questo libro, diciotto storie di migranti che l’autore – messinese trasferitosi a Schio per insegnare e collaboratore di testate giornalistiche vicentine e venete – ha avuto modo di raccogliere lui stesso da coloro che le avevano vissute e che erano giunti nel paese vicentino o nei dintorni dopo essere stati ospitati a Lampedusa, solitamente via Genova. Il motivo che ha spinto Palmeri a raccogliere queste storie lo si legge subito nell’introduzione: «Ho scritto queste pagine – racconta l’autore – perché non condivido i luoghi comuni con cui molta gente affronta il fenomeno della migrazione» (p. 5). E subito dopo chiarisce: «Non si tratta di un’analisi sociale ma di una serie di racconti che vogliono cogliere l’aspetto umano e descrivere le difficoltà e i rischi ai quali molti sono andati incontro soprattutto quando non esisteva l’operazione Mare Nostrum» (p. 5). E chissà che proprio la sua stessa cultura letteraria – Palmeri ha insegnato lettere – non abbia suggerito all’insegnante, giornalista e scrittore che la narrazione, il racconto delle vite altrui, aiuta a non cadere nello stereotipo che troppo spesso si fa largo tra la vuota astrattezza dei numeri.
Diciotto storie sono troppe per trovare spazio in una sola recensione e non rimane dunque che scegliere. Sceglieremo allora, a favore del lettore, diversi elementi, quasi dei variegati cenni, che aiutano a smontare lo stereotipo e a sottolineare la varietà atipica di queste storie migranti, a volte a immedesimarsi.
Il migrante che viene spesso messo alla luce dai media – complici anche i grandi numeri degli ultimi anni – è quello che proviene dal mare, che ha attraversato con grande fortuna il Mediterraneo e che poi viene messo al sicuro a bordo di qualche nave della Marina Militare: questa immagine, sempre uguale e sempre diversa, è ormai diventata un segno dei nostri tempi. Come per ogni stereotipo, però, non si tratta neanche in questo caso di un falso qualitativo, ma piuttosto quantitativo: l’immagine del migrante proveniente dal mare ha cioè inaccettabili pretese di assolutismo. Il libro di Palmeri presenta infatti molte storie di attraversamenti marittimi, tra le quali a rimanere forse più impressa è quella particolarmente intricata e fino alla fine sospesa nell’incertezza dell’etiope Biniam Kebed (La bandiera italiana, pp. 93-98), ma non solo. Ci sono anche casi di rifugiati che hanno seguito altre modalità. C’è per esempio chi è partito per un normalissimo viaggio senza sapere che non sarebbe più tornato, perché la guerra nel paese d’origine è scoppiata proprio durante la sua assenza e ne ha reso sconsigliabile il ritorno: è il caso, per esempio, del maestro di arti marziali e panettiere Youssuf, che quando la guerra scoppia nel 1998 nel Congo Brazzaville, si trova in Italia con la moglie Nelly per motivi sportivi e decide di rimanervi chiedendo lo status di rifugiato politico (Il pugile del Faraone, pp. 83-90) o chi, come la liberiana Gioia, arriva in Italia in aereo con un lavoro di badante già contrattato (In fuga attraverso la giungla, pp. 107-112).
Un altro stereotipo che può essere smontato è quello del migrante inattivo e interessato solo a sopravvivere per mandare soldi alla famiglia nel paese d’origine. Anche in questo caso le singole esperienze personali possono raccontare qualcosa di diverso: Gioia, per esempio, collabora adesso come mediatrice culturale col comune di Schio e fa parte con altri liberiani del paese della Liberian Association in Italy (LIBASI), mentre Mohammed, marocchino, ha fondato a Schio Amal, associazione – spiega lo stesso Palmeri – in cui si insegna la lingua araba e si favorisce l’integrazione dei migranti provenienti dai paesi arabi (L’Italia è un paese meraviglioso, pp. 41-47).
Non si tacciono poi certo le situazioni di irregolarità che alcuni di questi migranti hanno dovuto attraversare prima di raggiungere un diverso status, ma la narrazione contribuisce a riempirle dei sentimenti provati e quindi, ancora una volta, a riempire di qualcosa di umano una figura altrimenti stereotipata. A dominare, in questi casi, è il sentimento quasi claustrofobico che si prova a non poter circolare liberamente per le città, nonché l’orgoglio finale per la ritrovata libertà rappresentata dai tanto agognati documenti: è il caso del bengalese Farid (Farid: un’infanzia tra i monsoni, pp. 61-65) o dell’algerino Douadi (Dal sammarzano al ciliegino, pp. 35-39). In situazioni come queste, ma anche in altre meno estreme, la sensazione comune è quella dell’inospitalità delle città sovraffolate in contrasto con la migliore dimensione dei piccoli paesini di provincia: la campagna diventa quasi un luogo sicuro e protettivo che mette al riparo anche dall’ansia dei controlli che, in caso di irregolarità, possono significare la fine di una permanenza in zone sicure e lontane dai motivi che hanno portato alla fuga. La situazione migliora e si conclude con la regolarità permessa dai documenti, gli stessi che permettono di circolare liberamente ovunque si desideri: «Un po’ di fortuna per Douadi – si legge – arrivò dalla sanatoria per i clandestini del 1998. Ne poté usufruire grazie al proprietario di una serra di fiori di Macconi che si fece garante del lavoro fisso. E così, dopo un anno, il giovane algerino ottenne il permesso di soggiorno che gli consentì di vivere senza nascondersi e senza paura. Da quel momento andò in giro per Vittoria sicuro di sé quasi ostentando quel foglio tanto desiderato» (p. 39)
Se la storia di Patrizia (Odissea sulla Victory Riffer, pp. 121-128) merita una menzione tanto speciale quanto, per ragioni di spazio, fugace – al lettore che vorrà, il compito di approfondire – perché mette in crisi il binomio classico «noi italiani loro migranti», non si può non concludere richiamando una seconda volta la storia che dà il titolo alla raccolta: L’Italia è un paese meraviglioso. Il titolo è ironico, ma di un’ironia amara, visto che racconta dell’esperienza del marocchino Mohammed arrivato in Italia con molte speranze nutrite a loro volta da una visione lontana e – anche questa – stereotipata dell’Italia, trasmessa dalle reti satellitari. Anche l’Italia invece ha i suoi problemi e Mohammed lo impara presto: l’atteggiamento di certe persone verso gli stranieri, la burocrazia che impedisce di essere italiano a lui che in Italia lavora da 24 anni, che rende difficile persino rinnovare i documenti. E Mohammed ha deciso di andarsene e di aprire in Marocco, invece che in Italia, la sua palestra di Taekwondo. La sua associazione Amal verrà affidata ad altri e amal in arabo vuol dire «speranza».
Il lettore permetta una considerazione personale alla fine di questo pezzo. Chi scrive a Schio ci vive. Schio è una cittadina delle prealpi vicentine con una ricca tradizione storiografica che riguarda in gran parte l’Ottocento e il Novecento: il movimento operaio, la Prima guerra mondiale, la Resistenza, qualche appassionato di storia ricorderà nomi come quelli di Alessandro Rossi o Arnaldo Fusinato. Il libro di Fiorì Palmeri un giorno potrebbe costituire a sua volta un documento storico che renderà noto, passati i tempi e le persone, un pezzo più recente della storia locale e nazionale: quello delle migrazioni che a cavallo dei due secoli interessarono l’Africa, l’Europa e il Mediterraneo. E avrà il merito, questo libro, di aver raccolto e testimoniato le vicende di diciotto persone che in quel periodo storico ebbero come destino comune di partire da diverse zone dell’Africa o dell’Asia e ritrovarsi almeno per un po’ a Schio, paese dell’Italia del Nord; di averne colto e tramandato, per usare insomma le stesse parole dell’autore, «l’aspetto umano».