Giovanni e Nori. Geografia intima della Resistenza
di Alessandro Pagano Dritto
Osservare come i luoghi raccontino la vicenda narrata è uno dei modi attraverso cui si può leggere e scoprire l’ultimo libro di Daniele Biacchessi, Giovanni e Nori. Una storia di amore e di Resistenza, (Editori Laterza, Roma – Bari, 2014, pp. 175, 16 euro). La cartina geografica dell’Europa del Mediterraneo occidentale che lo introduce fa pensare – si spera a ragione – che da subito l’autore abbia prestato una cosciente attenzione a questo aspetto.
Il titolo del volume chiarisce subito che la storia che il lettore si appresta a leggere ha allo stesso tempo una dimensione pubblica – quella dei due resistenti che contribuiscono alla sconfitta del nazifascismo – e una dimensione invece intima, personale: quella di due innamorati che, come si scoprirà, si conoscono e si innamorano in tempo di guerra e, dopo aver rischiato di perdersi per sempre, si ritrovano a guerra appena conclusa. Il passaggio dall’una all’altra dimensione è così colto dal personaggio femminile della vicenda: «Io e Visone ci incontravamo sempre di giorno, per ragioni di sicurezza, ma una sera mi chiese di trattenermi con lui nella base di via Melloni perché, disse, c’era ancora del lavoro da fare. Non era vero. Aveva deciso che era il momento, per noi, di diventare più intimi. Seppi quindi il suo vero nome, Giovanni Pesce, ma fino al dopoguerra per me lui rimase Visone […]» (cit.; p. 76). In un periodo in cui la clandestinità impone le sue leggi ferree, dire ad un’altra persona, pur compagna di lotta, il proprio nome civile è un rischio tra i più alti e solo un profondo rispetto e amore reciproci ne possono valere la pena.
Giovanni Pesce (1918-2007) e Onorina Brambilla (1923-2011) detta Nori hanno dunque ognuno una precisa geografia privata e pubblica, che spesso si sovrappone e che qui però Biacchessi riporta con scrupolo. Di questo si vorrebbe qui dare un breve testimonianza, lasciando invece al lettore curioso di assaporare sotto altri aspetti sia il libro che la vicenda.
Innanzi tutto i luoghi dell’infanzia.
Giovanni Pesce nasce a Visone d’Acqui, un borgo piemontese che all’epoca, nel 1918, contava 2300 anime. Sarà curioso notare che i due nomi di battaglia che il ragazzo alterna durante la propria vicenda resistenziale sono entrambi legati al proprio paese d’origine. Il primo, Ivaldi, deriva dal cognome di un comunista del posto che Giovanni conobbe subito dopo l’8 settembre: Guido Ivaldi. Il secondo, Visone, è chiaramente ispirato al nome stesso della cittadella.
Così Biacchessi introduce i luoghi dell’infanzia di Giovanni: «Giovanni – scrive – vive i primi anni di vita in una casa nel centro del paese, vicino alla chiesa dedicata agli apostoli Pietro e Paolo e all’abitazione del parroco, sulla riva destra della Bormida, verso tramontana, tre vecchie costruzioni tirate su in collina, i ruderi del castello Malaspina del XIV secolo, una torre merlata da cui si gode un bel panorama su tutta la valle, le cave utilizzate per la pietra da taglio, il torrente Visone, che lambisce il centro abitato verso nord, e il rio Caramagna, poco più che un rigagnolo d’acqua. A quel tempo la Bormida, che scorre accanto a Visone, è già inquinata dalle lavorazioni nella fabbrica di esplosivi Sipe di Cengio, poi rilevata dall’Acna» (p. 5)
La descrizione sembra introdurre, insieme al paese, anche l’ambiente culturale in cui muoverà i primi passi il piccolo Giovanni: una chiesa dedicata a due santi, l’abitazione del parroco, i fiumi, un antico castello ridotto in ruderi e una fabbrica di esplosivi che inquina la natura del posto. Giocando forse un po’ di fantasia, l’ultima potrebbe essere, nemmeno a farlo apposta, un’ironica anticipazione delle guerre cui Giovanni parteciperà, col loro carico di dolore e morte, di contaminazione. La presenza invece di una fabbrica accanto a una chiesa introduce in qualche modo la stessa famiglia del bambino: il padre socialista – ma in realtà scalpellino e non operaio – e la madre cattolica.
Diverso invece l’ambiente, molto meno paesano e decisamente più cittadino, in cui cresce Nori, futura moglie di Giovanni. Ma qui Biacchessi ha la possibilità di presentarla tramite un contesto più privato: quello della casa di Milano in cui vive con i genitori e la sorella Wanda.
«Le giornate di Onorina si svolgono tra la ringhiera e il cortile di via Alfonso Corti 30. La famiglia Brambilla vive al terzo piano, in un appartamento di due stanze, piccolo e ordinato. Il bagno è sul balcone, in comune con gli altri inquilini dello stabile. Nell’ingresso ci sono una cucina e un divano che all’occorrenza diventa un letto; è il luogo preferito da Onorina: ci vive, ci dorme. Così Onorina può leggere fino a tardi senza disturbare la sua famiglia. […] Onorina a dieci anni è già indipendente e sa fare tutto in casa: cucina, apparecchia, sparecchia, lava le stoviglie, gli indumenti sporchi. Le due piccole [Nori e Wanda] giocano in cortile intorno ad un grande ceppo di cemento, che diventa la loro cucina immaginaria, il loro gioco preferito» (pp. 22-23)
C’è tutto. L’appartamento popolare col bagno in comune, la fortunata libertà di una stanza tutta per sé, la curiosità delle letture solitarie – Kropotkin, London – che introdurranno Nori alla cultura antifascista già respirata in famiglia, la precoce indipendenza e persino la dimensione di donna in cucina dalla quale in parte la sottrarrà il lavoro in fabbrica e in parte la Resistenza.
A questo proposito dirà lei stessa: «Va sottolineato che la partecipazione delle donne alla Resistenza fu dovuta principalmente a motivi personali. A differenza di molti uomini che scelsero di andare in montagna per sottrarsi all’arruolamento dell’esercito di Salò, nessun obbligo militare costringeva le donne ad una scelta di parte. Potevano starsene a casa, insomma. La Resistenza fu anche l’occasione per affermare quei diritti che non avevamo mai avuto. Mai come in quei mesi ci siamo sentite pari all’uomo. Paradossalmente con la guerra si crearono le condizioni di una libertà personale mai sperimentata prima. Molte di noi con la Resistenza si guadagnarono la loro autonomia. E fu nel giornale dei Gruppi di difesa della donna Noi Donne che lessi per la prima volta la parola emancipazione» (cit.; p. 71).
Mentre Nori vive la sua vita milanese, Giovanni si trasferisce con la famiglia in Francia, nel paese minerario di Le Grand Combe, partecipa alla guerra di Spagna e vive tre anni di confino a Ventotene. Biacchessi dedica diversi, importanti, capitoli a queste esperienze; qui però si seguirà il filo della geografia pubblica e privata resistenziale dei due e si andrà direttamente all’esperienza gappista di Giovanni, che prima a Torino e poi a Milano è chiamato a riprendere le redini di due Gruppi di Azione Patriottica (GAP) falcidiati dagli arresti. I GAP rappresentano la parte urbana della guerriglia resistenziale, che opera parallela a quella montana forse più nota al grande pubblico: la stessa Nori, che si unirà come staffetta ai GAP di Milano col nome di Sandra, voleva inizialmente unirsi alle formazioni di montagna.
Il gappista, operando in città, deve conoscere alla perfezione la pianta topografica del posto, le vie, i locali, il modo più breve e più veloce per arrivare all’obiettivo da colpire e poi ritirarsi, scomparire. Biacchessi descrive allora nel dettaglio la topografia nazifascista di Torino, le vie di Milano teatro delle azioni resistenziali, degli omicidi mirati o delle bombe: l’identificazione tra il lettore e il gappista è favorita. Impossibile riportare qui tutto, colpiscono però poche righe più intime che si riferiscono all’alloggio di via Macedonio Melloni 76: la base che Giovanni lascia all’improvviso quando si convince che Nori è prigioniera dei tedeschi a causa di una delazione di cui lui stesso era forse vittima designata. Le poche righe sembrano dare l’idea della fretta di Giovanni, del disordine e delle azioni lasciate a metà cui la vita clandestina a volte obbliga: «Così abbandona con rammarico la base di via Macedonio Melloni 76 – scrive Biacchessi – con un libro ancora aperto sul comodino, il vaso di fiori, le cartine topografiche di Milano, i momenti di vita, di amore e di azione vissuti con Nori. Giovanni si sposta rapido nell’appartamento trasformato in infermeria in via Hajech 33, dopo aver messo al sicuro il suo arsenale con bombe, detonatori, esplosivo, pistole, mitragliatori, con l’ausilio della portinaia e di una vicina di casa» (p. 89). Ricordi, vissuto, memorie, armi, arredamento, la base pubblica dei resistenti e la dimora privata degli innamorati sembrano fare un tutt’uno, a riprova che Giovanni è costretto a lasciare rocambolescamente lì l’una quanto l’altra.
Ci sarebbe altro da aggiungere che lo spazio di una recensione però non permette: Milano durante la guerra, Milano negli anni di piombo come la città tormentata della guerra di Spagna. Il lettore curioso vedrà da sé.
Qui si spera solo di aver reso a questo libro un merito che pare indiscutibile e che procede anche questo parallelo al suo valore di memoria storica di una coppia di partigiani, delle loro vite e dei loro ideali: l’aver sottolineato, senza mai dirlo esplicitamente, l’aderenza ai luoghi, ai posti, che contraddistingue ogni lotta e che la rende concreta e unica, che ne dà forse il senso principale. Nell’Italia settentrionale del 1943-1945 e sempre e ovunque nello spazio e nel tempo.