Africa all’ombra del baobab: Eugenio Susani racconta
di Alessandro Pagano Dritto
Il baobab, si legge nella prefazione, «è un albero che può diventare enorme (il suo tronco può arrivare a diversi metri di diametro) e di cui nulla va perduto» (p. 5). E infatti l’ultimo libro di Eugenio Susani si chiama proprio così: All’ombra del baobab. Racconti di un volontario in Africa (Edizioni Dalla Costa, Bergamo, 2013, pp. 257, 12 euro). Sono sessantacinque racconti che vanno dal 1966, anno dell’arrivo di Susani in un villaggio della Sierra Leone come professore di letteratura inglese e francese, alla prima metà degli anni ’90, quando cioè l’uomo visita il Mali. In mezzo, per la verità, la Somalia, il Marocco, il Mozambico, il Sud Africa, il Senegal. Ma tra Sierra Leone e Mali si gioca la gran parte del libro.
Curando la postfazione al libro e rievocando la figura del collega e amico morto da qualche mese, Riccardo Borghi così scrive della prosa del libro: «Linguaggio analitico, quasi dimesso, dunque privo di orpelli superflui, finalizzato unicamente ad informare e far capire. La bellezza di questa prosa è nell’aderenza agli oggetti, nell’efficacia della comunicazione di cui è strumento. Non a caso Eugenio, in alcuni passi, ricorda le sue ascendenze lombarde: il suo linguaggio risente chiaramente della scuola dei Verri e dei Beccaria. Ma quando Eugenio si ferma estasiato a contemplare le meraviglie del paesaggio, il linguaggio si fa rapsodico […]. E se proprio sente di non farcela a comunicare integralmente, come vorrebbe, l’immagine di tanta bellezza, si concede – lui così schivo, così attento a non far trapelare nulla delle sue conoscenze «accademiche» – qualche vezzo da occidentale colto, come il richiamo al colorismo di Emil Nolde o alla pittura metafisica di De Chirico» (Frammenti per Eugenio, pp. 247-253; p. 249). In queste righe c’è probabilmente tutto il Susani scrittore e uomo che il lettore può tenere presente e considerare al momento di leggere il libro per la prima volta. Un libro di cui, per la verità, non è facile parlare, tanto richiede una sintesi che è veramente difficile, se non impossibile fare. Il sottotitolo chiama infatti i sessantacinque scritti inclusi col termine di racconti, ma è un termine che non sembra poter essere preso letteralmente: molti di questi infatti sono, più che racconti, brevi affreschi, quadri a lievi tocchi in cui si descrive un personaggio, un mercato, un evento, a volte anche in chiave ironica.
Uno degli aspetti che colpisce di più del libro sono proprio i personaggi, che possono comparire solo per poche righe o per una facciata – con poche eccezioni i racconti di Susani non superano le due o tre facciate ciascuno – oppure legare tra loro due o tre episodi diversi. Si ha l’impressione che Susani li usi come guide, che attraverso questi lui scopra l’Africa, le sue bellezze ma anche le sue contraddizioni, e il lettore li vede sparire senza un motivo: protagonisti di uno scritto, comprimari del successivo, comparse e poi nulla più, oppure semplici protagonisti di un episodio su cui gli occhi e le parole del narratore si sono potute posare una volta sola, fugacemente.
Alcuni di questi personaggi rimangono impressi, e spesso sono i più anonimi.
Per esempio Bilu, la ragazza di Goundam (pp. 185-187), in Mali, con problemi psichici che abbraccia Susani all’improvviso, all’uscita da un negozio, e che per questo viene gettata a terra dal padre; oppure la donna considerata indemoniata percossa dal marito in Un uomo? (pp. 110-111): «Ha la bocca spalancata – si legge di lei – e gli occhi spiritati. Il suo corpo è coperto di polvere bianca e di piaghe, i capelli sono rari, rossicci e sporchi, il viso è un teschio coperto da una pelle sottile e tirata. La bocca è quasi priva di denti. Trema e continua ad ansimare, terrorizzata. Quando faccio per aiutarla a rialzarsi, si ritrae con un grido, guardando verso il mercato, forse per vedere dov’è suo marito (p. 110)»; ma anche senza arrivare per forza a momenti tanto drammatici, la giovane Mary cugina dell’autista che porta Susani a Freetown, capitale della Sierra Leone, in un avventuroso viaggio in pick up (Viaggio a Freetown, pp. 112-129), oppure Kadiatu, la ragazza «dall’abbigliamento e dai modi inequivocabili» (p. 131) che «si ricompone sulla panca, mi guarda fisso negli occhi e comincia a raccontare la sua vita» (p. 131): «Come per una tacita intesa – scrive di lei Susani ricordando il tempo passato a chiacchierare – che da partenza non saprei spiegare fino in fondo, non faremo niente di più che stare seduti sotto il portico. L’ultima sera avremo solo il tempo di salutarci da lontano» (Freetown, pp. 129-131, p. 131).
L’elenco dei personaggi e delle caratteristiche di questo libro dalla sintesi, come si è detto, quasi impossibile, potrebbe continuare, ma avrebbe forse poco senso farlo. Il lettore scoprirà da sé chi era Eugenio Susani, quali fossero cioè la sua personalità, la sua sensibilità e il suo amore per l’Africa, le caratteristiche delle sue pagine. Basti qui sapere della bellezza di questi brevi ritratti di gente comune, anonima, la cui scomparsa o la cui lontananza a causa della guerra si fa addirittura angoscia di fondo in quello che forse è, per assenza appunto, il più triste ma anche uno dei più significativi racconti del libro: Ritorno a Kambia (pp. 147-153), dove il paese allegro e gioioso che lo aveva ospitato per tre anni dal 1966 al 1969 si trasforma, in piena guerra civile, in un posto abbandonato, distrutto, sporco, dove insieme ai volti anonimi dei rifugiati provenienti da altre parti della Sierra Leone, camminano i fantasmi degli studenti incontrati da Susani nei suoi tre anni di permanenza, del vecchio Assane conoscitore di miti, del tronfio Alimamy Traorè, il capo di Kambia (pp. 23-25) e delle sue mogli, dei missionari italiani sostituiti da nuovi, tristi, volti.
Una scelta del tutto personale propone qui di concludere con la storia del vecchio Moussà, Il cieco di Tinbuctù (pp. 196-199), forse una di quelle che per delicatezza e suggestione rimane dentro più di tutte. Il vecchio Moussà è un ex carovaniere, di quelli che dalle cave vicine a Tinbuctù portavano e portano il sale fino alle frontiere dell’Algeria, attraversando col loro carico il deserto del Sahara. Moussà era già celebre in gioventù per riuscire a spostarsi nel deserto anche quando tutti gli altri erano costretti a fermarsi, cioè durante le tempeste di sabbia: per questo si diceva che nessuno aveva percorso quelle tratte più volte di lui. Poi la sopraggiunta cecità lo aveva costretto a fermarsi. Un giorno alcuni carovanieri più giovani che a stento erano sopravvissuti a una tempesta di sabbia lo avevano sfidato, per gioco, a riconoscere i vari posti della tratta pur senza poterli vedere coi propri occhi e l’anziano cieco aveva vinto la sfida basandosi sulla ferrea legge imparata durante le tratte: che «la sabbia non è uguale dappertutto» (p. 198). Scrive Susani: «Tre giorni più tardi, poco prima del tramonto, la vecchia Land Rover del capo villaggio (coinvolto per l’occasione) sulla quale viaggiavano, era di nuovo alla periferia di Tinbuctù, dopo aver percorso quel giorno più di un centinaio di chilometri nel deserto. Alle porte della cittadina, l’auto si era fermata e i sei passeggeri erano scesi per l’ennesima volta. Come avevano fatto per ogni tappa, e per tutto il viaggio, sceso dalla macchina Moussà si era chinato a raccogliere un pugno di sabbia e, subito dopo, con gli occhi sempre chiusi e la testa rivolta verso il cielo aveva gridato: Tinbuctù!» (p. 199). Era nata così la leggenda del vecchio cieco di Tinbuctù.