Israele concede 5.000 permessi di lavoro ai palestinesi della Cisgiordania
di Valeria Vellucci
È all’interno di un clima dominato dall’incertezza e dal dubbio circa l’esito dei negoziati di pace tra Israele e Palestina, che giunge un accenno di apertura da parte del governo israeliano nei confronti dei palestinesi della West Bank. Nei giorni scorsi, infatti, le autorità israeliane hanno deciso di concedere 5.000 nuovi permessi di lavoro ai palestinesi residenti in Cisgiordania.
La situazione, nonostante questa ‘apertura’ possa essere ritenuta come un passo avanti, non può essere inquadrata in un’ottica del tutto positiva. Le procedure necessarie per l’ottenimento di un permesso di 6 mesi sono infatti molto complesse e presuppongono il possedimento di specifici requisiti: il richiedente deve avere almeno 35 anni, sposato e con un figlio, non avere precedenti penali. Il 40% dei palestinesi è stato arrestato, almeno una volta, per quelle che vengono definite ‘ragioni politiche’. Secondo le statistiche, dell’anno 2012, presentate dal Palestinian Central Bureau of Statistics, 77.000 palestinesi lavorano in Israele ma a possedere un regolare permesso sono solamente 40.000; inoltre, 30.000 sono coloro che lavorano in nero all’interno delle colonie non godendo di alcun diritto, costituendo, quindi, un vantaggio ed un risparmio per il datore di lavoro.
Negli anni ’90 i permessi, con regolare contratto, erano circa 120.000 l’anno mentre dalla Seconda Intifada (2000) sono diminuiti notevolmente divenendo 20.000. È nel 2002 che la già precaria e quasi inesistente economia fu letteralmente strangolata dall’accelerazione delle politiche espansionistiche israeliane: confisca delle terre, riduzione delle risorse idriche, limitazioni alla libertà di spostamento e distruzione della principale fonte di sostentamento dell’economia palestinese, l’agricoltura. La concessione, quindi, inserita all’interno di un quadro così complesso potrebbe essere percepita come l’ennesimo tentativo di annessione, oltre che dei territori, anche della forza lavoro palestinese, indebolendo ancor più l’economia.
Sempre nei giorni scorsi è un’altra la proposta giunta nell’ambito delle leggi riguardanti il lavoro. Un nuovo disegno di legge, proposto dal partito Casa Ebraica e sul quale lo stesso Netanyahu si è espresso favorevole, andrebbe ad estendere la legge sul lavoro israeliana anche alla Cisgiordania, in modo tale da favorire e tutelare i coloni israeliani residenti negli insediamenti. La proposta, oltre a contribuire al rafforzamento dell’occupazione, andrebbe a legittimare ulteriormente quelle che sono colonie illegali e contrarie al diritto internazionale.
Quello vigente nei Territori Occupati è già, di per sé, un intricato sistema legale: ai coloni si applica la legge civile e penale israeliana, ai civili palestinesi si applica la legge militare. Secondo il leader di Casa Ebraica, Naftali Bennett, la legge servirebbe ad eliminare le differenze esistenti tra gli israeliani residenti all’interno dello stato di Israele e coloro che invece risiedono nei Territori Occupati. Diverse sono le opinioni espresse riguardo alla proposta, le quali hanno prodotto una spaccatura persino all’interno del Knessett: c’è chi considera il disegno di legge come un ulteriore passo avanti per la completa annessione dei Territori Occupati e chi, invece, lo reputa come inutile in quanto i coloni godono già degli stessi diritti dei residenti dello Stato di Israele. L’Association for Civil Rights in Israele così si esprime: «La Corte Suprema, sei anni fa, ha stabilito che israeliani e palestinesi che lavorano nelle colonie dovrebbero essere sottoposti alla legge sul lavoro israeliana, quindi la proposta di Casa Ebraica non è niente di nuovo».
A dare un’opinione dal punto di vista strettamente giuridico è Emmanuell Gross, ex giudice militare ed esperto dell’Università di Haifa, il quale ha affermato: «La Cisgiordania è sotto occupazione militare, per questo è governata secondo il diritto internazionale. L’occupante non ha il diritto di applicare le sue leggi interne ai territori occupati. Se lo fa, viola i suoi obblighi di fronte al diritto internazionale».