Anarchismo: un nuovo libro ripercorre una strada lunga due secoli
di Alessandro Pagano Dritto
Anarchia. Forse uno dei termini più fraintesi della storia del pensiero contemporaneo. Vengono in mente storie di assassinii, di omicidi e poco altro. Gaetano Bresci che uccide re Umberto I. E poi caos e disordine, mancanza di controllo e di regole, ognuno fa ciò che più gli pare.
L’ultimo libro del professore di storia del pensiero politico contemporaneo Gianfranco Ragona, Anarchismo. Le idee e il movimento (Editori Laterza, Roma-Bari, 2013, 12 euro) aiuta a capire meglio. Impossibile rendere conto di tutto ciò che vi è scritto nello spazio di una recensione, bastino allora qui brevi cenni.
Il pensiero anarchico come vaga sensibilità antiautoritaria nasce nel Rinascimento, quando Étienne De la Boétie (1530-1563) scrive nel suo Discorso sulla servitù volontaria che ogni potere, di qualsiasi natura, è oppressivo e l’uomo deve liberarsene smettendo di obbedire: è il 1549.
Nel 1840 Pierre Joseph Proudhon (1809-1865) accusa la proprietà privata di essere la causa della schiavitù umana e alla domanda con cui dà il titolo alla sua opera – Che cos’è la proprietà?– si risponde senza giri di parole: «un furto». La sua posizione non è del tutto originale, prima di lui William Godwin (1756-1836) aveva già puntato il dito. Ma Proudhon è il primo a introdurre nel pensiero anarchico il concetto di «federazione»: la futura società anarchica sarà una federazione di gruppi paritari che si regoleranno così tra loro senza bisogno di un intervento superiore qual è quello dello Stato. L’anarchia dunque non prevede assolutamente l’assenza totale di regole, ma è una diversa regolamentazione della società su base orizzontale, da pari a pari, e non verticale, da autorità a suddito o da autorità a cittadino: «an-archica», appunto, «senza potere» esterno. Anche nell’organizzazione politica pratica del loro movimento, gli anarchici useranno spesso il termine introdotto da Proudhon.
L’anarchismo nel suo sviluppo storico, tra ottocento e novecento, deve fare i conti con un’altra grande ideologia: il socialismo. Le due ideologie non sono separati compartimenti stagni, hanno dei punti di contatto, ma anche importanti differenze. Già Proudhon metteva in guardia contro la rivoluzione socialista, che al contrario di quella anarchica non avrebbe portato all’uomo la libertà, ma solo una nuova imposizione.
Con i socialisti ebbe da dire anche Michail Bakunin (1814-1876), russo, forse il più celebre dei teorici anarchici, di certo tanto importante da relegare tutti i suoi predecessori nell’epoca improvvisamente tramontata dell’anarchismo classico. In realtà Bakunin stimava l’opera più famosa di Karl Marx, Il Capitale (primo libro, 1867), e fu tra i promotori della sua prima traduzione in lingua russa. Concordava con lui nella critica che muoveva alla società capitalista, dal cui giogo l’uomo si doveva liberare per trovare la libertà. Bakunin però, che espresse organicamente il suo pensiero nell’opera della tarda maturità Stato e anarchia (1873), riteneva che nessuno potesse guidare la rivoluzione, tanto meno organizzarla: l’uomo infatti tende, sostiene il pensatore, naturalmente alla libertà e altrettanto naturalmentecercherà di conquistarsela. Al massimo era disposto ad accettare la presenza di alcuni fomentatori, ma la rivoluzione sarebbe stata comunque spontanea. Introducendo nel pensiero anarchico un primo elemento classista, Bakunin riteneva che i contadini, naturalmente libertari, avrebbero realizzato la rivoluzione anarchica.
Una ventina d’anni dopo Bakunin un altro importante teorico russo, Pëtr Kropotkin (1842-1921), avvicinava ancora di più comunismo e anarchia, sostenendo che l’uno portasse all’altra e viceversa. Era il suo quello che viene chiamato anarco-comunismo o comunismo libertario: nel proporre infatti la ricetta economica della futura società anarchica, Kropotkin sosteneva che ognuno avrebbe prodotto in base alle proprie capacità e ricevuto in base ai propri bisogni. Una formula molto più vicina a quella comunista, in effetti, che a quella per esempio di Bakunin, secondo il quale la società anarchica, «rendendo impossibile per qualunque individuo, chiunque sia, lo sfruttamento di un altro, [avrebbe permesso] a ciascuno di partecipare della ricchezza della società – ricchezza non mai prodotta altrimenti che col lavoro – solo nella misura in cui col suo lavoro ha contribuito a produrla» (cit.; pp. 41-42).
A spingere l’anarchismo in un senso decisamente classista, sconosciuto agli albori del movimento, fu comunque, più che la teoria di questo o quel pensatore, l’esperienza pratica dell’anarcosindacalismo, sviluppatosi soprattutto in Francia a cavallo dei due secoli parallelamente alle contemporanee esperienze socialiste. L’anarcosindacalismo non prevedeva solo lo sciopero e l’allontanamento dei lavoratori dal lavoro, ma tutta una serie di organizzazioni preesistenti che rendevano possibile l’esperienza: le Borse del lavoro, chiamate in Italia Camere del lavoro. Fu un italiano, l’anarchico Errico Malatesta (1853-1932), a proporre una visione critica interna dell’anarcosindacalismo, che andava bene sì per combattere i problemi pratici di una classe sociale, ma che non doveva sostituire l’obiettivo finale della società anarchica. I sindacalisti, sosteneva Malatesta, rischiavano di diventare un’elite privilegiata che avrebbe trovato nei problemi degli operai con la società capitalista prima di tutto un motivo, l’unico vero motivo, per esistere; e difficilmente si sarebbero adoperati, quindi, per farlo venire meno.
Nel novecento furono paradossalmente quelle che parevano prefigurarsi come le loro maggiori vittorie pratiche a mettere in crisi sul campo gli anarchici europei: la rivoluzione russa e la guerra civile spagnola.
L’entusiasmo del movimento anarchico per la prima fu dovuto in buona parte all’esperienza dei soviet autogestiti, che sembravano incarnare, finalmente tangibile e concreta, la tanto agognata futura società. In realtà l’esperienza, pur intensa, fu breve: già nella primavera del 1918 Lenin ricondusse i soviet sotto il controllo dello Stato, deludendo una parte del movimento anarchico che pure, a sentire Lev Trotzkij, aveva avuto buona parte agli albori della rivoluzione d’ottobre. L’altra parte del movimento che volle continuare a dare la propria fiducia credendo a motivazioni contingenti, fu poi definitivamente allontanata dall’evolversi della vicenda sovietica.
Nella Spagna della guerra civile gli anarchici dissero, lì pure, la loro. Al momento della prima necessità furono proprio loro, dotati di formazioni paramilitari aderenti al loro sindacato nazionale, a costituire la prima opposizione armata alle forze ribelli di Francisco Franco. In Catalogna, il loro feudo, organizzarono gestioni collettive dei terreni che costituirono una sorta di mito per la memoria anarchica successiva; un gruppo di donne, le Mujeres libres di Federica Montseny (1905-1994) sperimentò forme di gestione collettiva delle strutture educative dei bambini, così da alleggerire il compito delle madri combattenti. Ma il loro rapporto con la Federazione anarchica iberica (FAI) non fu sempre ottimale e nel 1938 non venne loro riconosciuto alcun ruolo ufficiale nel «Movimento libertario spagnolo».
L’appoggio dato ai lealisti dall’Unione sovietica a partire dal settembre 1936, la necessità concreta di regolarizzare le formazioni combattenti in strutture gerarchiche che cozzavano con l’antigerarchismo genetico del movimento, gli scontri con le formazioni comuniste e la necessità pratica di rientrare nell’alveo del governo sentita nell’emergenza dei fatti da alcuni militanti, tra cui la stessa Montseny, indebolirono e di fatto marginalizzarono l’influenza anarchica sulle sorti del conflitto.
Da queste due esperienze storiche il movimento organizzato anarchico uscì molto frammentato, ma a livello di attività teoretica è rimasto comunque molto vivace per tutti i decenni successivi, avvicinandosi per esempio all’ecologismo – almeno un nome: Murray Bookchin (1921-2006) – e criticando in profondità le strutture educative della società occidentale con nomi quali Ivan Ilich (1926-2002) e Paul Goodman (1911-1972).
Impossibile, come si diceva all’inizio, rendere conto di una materia tanto vasta in una sola recensione. Si è scelto qui di dare più importanza ai grandi nomi e ai grandi eventi del movimento anarchico nelle sue diverse sfumature, tralasciando nomi «minori» e movimenti limitati nel tempo come quello della propaganda del fatto: l’assassinio, cioè, di personalità della società borghese ad opera di piccoli gruppi o singoli individui, con cui spesso viene erroneamente identificato l’anarchismo nel senso più ampio.
Che invece fu qualcosa di ben più complesso che vale la pena conoscere al di là di ogni stereotipo.