Esce “Avere vent’anni a Tunisi e al Cairo”: intervista all’autore Khaled Fouad Allam
di Lorenzo Alberini
Khaled Fouad Allam, nato in Algeria e vissuto a lungo anche in Francia, è sociologo, giornalista e autore di numerosi saggi sull’islam. È stato deputato al Parlamento italiano e oggi insegna Sociologia del mondo musulmano all’Università di Trieste. Tra le pubblicazioni più recenti: ‘L’islam globale’ (2002), ‘Lettera a un kamikaze’ (2004, premio Elsa Morante), ‘L’islam spiegato ai leghisti’ (2011). Poche settimane fa ha pubblicato per la casa editrice Marsilio il suo ultimo libro, utile e piacevole strumento «per una lettura delle rivoluzioni arabe».
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Professor Allam, le rivolte arabe sono state immediatamente seguite da un gran numero di pubblicazioni sul tema, come afferma lei stesso nella premessa del suo libro. Allora perché un altro volume sulla «Primavera araba»?
Già l’anno scorso avevo denunciato il fatto che c’era stata un’inflazione di pubblicazioni sul fenomeno, ma che però dal punto di vista dell’analisi scientifica lasciavano il tempo che trovavano, nel senso che spesso dei non specialisti si sono messi a scrivere su questo fenomeno senza avere l’apparato di cultura politica, l’apparato concettuale per capire un mondo che comunque rimane estremamente complesso. C’è stato negli ultimi anni una specie di sovraccarico del fenomeno giornalistico di fronte a questi eventi e spesso il mondo giornalistico ha preso il posto degli esperti. Noi viviamo in un mondo, e non mi riferisco solo al mondo arabo, in cui la sequenza storica è prigioniera della notizia, che significa che la notizia prevale su tutto. Spesso in situazioni rivoluzionarie, di rivolta, come quelle del mondo arabo, il fatto che questi fenomeni possono cambiare di giorno in giorno impedisce di avere una prospettiva sulla complessità e sulla lunga durata di questi fenomeni. Io critico questo.
Il testo è ricchissimo di spunti e citazioni letterarie (testi di canzoni, film, letteratura). Perché questa scelta originale per un saggio sociologico?
Perché un processo rivoluzionario di cambiamento, di emancipazione, non si trova assolutamente solo negli slogan politici o nella programmazione politica, ma spesso ci sono dei vettori culturali che anticipano questo, anche di 20-30 anni. Io, conoscendo abbastanza bene il fenomeno del ’68 in Occidente, ho cercato di vedere se, attraverso dei vettori culturali, potevo trovare la stessa sequenza storica. I giovani ascoltano musica, ballano, leggono, vanno al cinema, a teatro. Così ho cercato fra i loro vettori culturali e ho fatto un paragone [tra ’68 e Primavera araba, nda], in particolare sulla questione femminile e sul posto della religione nella società.
Sempre dal libro si apprende che in lingua araba esiste un unico termine, thawra, per le parole rivolta e rivoluzione. Dobbiamo derivarne che nel mondo arabo non è concepibile una rivoluzione in senso pieno?
Questo è un problema che non sono riuscito a risolvere. Sono partito dal presupposto che ogni parola può essere tradotta, ovviamente, però esiste quello che in linguistica si chiama differenziale semantico, cioè la portata di una parola tradotta. Talvolta questa parola tradotta da una lingua all’altra non porta sempre la stessa valenza, la stessa potenza. In lingua araba si usa la stessa parola per dire rivolta e rivoluzione, però è più nel senso di rivolta che di rivoluzione. Il senso occidentale della parola rivoluzione si rifà infatti a una sovversione della temporalità, come nella rivoluzione francese. I rivoluzionari francesi, all’inizio, hanno cambiato il calendario. Pensiamo, ad esempio, al 18 brumaio… E nell’islam, teologicamente parlando, una sovversione del tempo non è possibile perché già l’islam introduce un nuovo tempo, a partire dall’Egira nel 622 d.C. e questo nuovo tempo non è finito, è infinito. È una cosa sottile, ma molto importante. Nessun altro tempo potrebbe sovvertire il tempo dell’islam perché significherebbe negare l’islam stesso.
Quindi forse prima di una rivoluzione sarebbe necessaria una secolarizzazione della società araba.
Il che significa affrontare le difficoltà non della laicità, ma della secolarizzazione dell’islam, perché essa – l’ho scritto nel libro – significa indirettamente che il fenomeno religioso islamico è un fenomeno accanto a tantissimi altri fenomeni e non è il fenomeno preponderante. Si introduce cioè quella che in filosofia si chiama soggettivizzazione della religione. Questo non significa che nella sfera islamica non ci siano non credenti, ma essi non sono delle matrici della società. In occidente, dopo la rivoluzione francese, la secolarizzazione è una matrice su cui la società si definisce e si struttura.
Nel libro definisce la Primavera araba come «crisi del neo patrimonialismo» della società araba, basata fino a ieri su due elementi: forte ruolo del leader e concezione della società come composta da gruppi e non da individui. Eppure nelle nuove società arabe (Tunisia, Egitto) c’è un altro gruppo che si sta imponendo sulla scena politica: i Fratelli musulmani. La situazione è davvero diversa o «è cambiato tutto per non cambiare niente»?
Beh è cambiata. È ovvio che i Fratelli musulmani hanno fatto da cortocircuito di fronte alle speranze di una parte della società, come il mondo giovanile. Quello che è saliente, però, è l’idea di rivolta di fronte al potere ingiusto, che è un fenomeno non nuovo nell’islam. Tutta la storia dell’islam è accompagnata da un rapporto dialettico tra il popolo e il sovrano. Quello che è venuto fuori è la critica dinastica del sovrano, che si appropriava del potere. Le rivolte arabe sono una lotta politica sulla piazza pubblica. Cosa significa? La piazza chiama il sovrano e gli dice che è illegittimo perché è lì da troppo tempo, ma anche perché ha derubato il suo popolo. Poi è troppo presto per dire che i Fratelli musulmani si comporteranno come gli altri gruppi che li hanno preceduti al potere perché sono passati solo due anni. E comunque in Egitto o in Tunisia una dialettica si è instaurata perché la società è divisa in due riguardo a chi è al potere.
Insomma il cammino verso la democrazia è un processo lungo. Ma quanto pesano rispettivamente il passato di dominio coloniale europeo e la religione islamica nell’attuale instabilità di molti stati arabi?
Non pesano più. Quello che è interessante di queste rivolte, o rivoluzioni, è il fatto che nascono da una nuova generazione, che non è quella dei miei genitori o la mia, legate ancora all’eredità di tipo neo coloniale e a un complesso non d’inferiorità ma quantomeno di soggettività di fronte al potere coloniale. Questa nuova generazione ventenne o trentenne ha tutta un’altra visione dell’Occidente.
E questa soggettività dei padri non si è trasformata in rancore nei figli, per il passato coloniale?
No, questo rancore può esserci ancora un po’, ma è molto meno rispetto al passato. Non ci sono stati slogan anti-occidentali, al massimo anti-imperialisti.
Neanche tra i salafiti?
Sì, ma i salafiti sono un po’ come certi movimenti radicali giapponesi. L’Occidente che è entrato in questa società nell’Ottocento e nel Novecento non appare più. Anche perché ora ci sono altri modelli, che non sono i modelli dell’Occidente. I loro modelli provengono dal mondo dell’Asia e dalla Turchia. Il modello vincente è il modello turco, che risolve l’equazione tra Oriente e Occidente. Con queste rivoluzioni vediamo venir meno il rapporto tra Europa e Mediterraneo. Questo gli occidentali non l’hanno capito ancora. È una classe dirigente nuova, che ha tutta un’altra cultura, che è abituata a internet, conosce molto bene le lingue – non solo l’inglese e il francese – e che ha un altro rapporto con l’Occidente: meno complesso di quello dei nostri genitori.
Allora esiste una via islamica alla democrazia? La Turchia può esserne un esempio?
Ne ho parlato con loro, soprattutto con gli studenti dei paesi arabi, ed è evidente che la Turchia è un modello – così come il Giappone è stato un modello per l’Asia degli anni 50 – anche perché la Turchia ha una penetrazione economica e culturale molto forte nel mondo arabo. Poi dire ‘la via islamica’… è un problema che si pone. Un’altra cosa interessante di queste rivoluzioni è che l’islam politico si è spaccato in un versante iper-radicale, i salafiti, e un versante «moderato» – anche se la parola non mi piace perché non vuol dire niente – che cerca di risolvere un conflitto molto complicato. Prima di essere un conflitto politico c’è un conflitto culturale, che è la questione della democrazia. Ma non c’è democrazia senza uguaglianza. Non solo uguaglianza economica, ma nel trattamento della persona umana. A partire dal fatto che nell’islam classico ci sono delle discriminazioni di genere tra uomini e donne, delle discriminazioni religiose tra musulmani e non musulmani e tantissime altre cose. Il compito della democrazia è mettere fine a queste discriminazioni, ma ci vogliono dei cambiamenti culturali notevoli, che non si risolvono attraverso un decreto-legge o una decisione politica. Ci vuole una società in grado di accogliere questo e nel mondo arabo-islamico è complicato.
Parliamo dell’Europa. Alla libera circolazione interna all’Unione Europea (patto di Schengen), è presto seguita la tendenza degli stati europei a rendere più rigidi i confini esterni dell’Unione, per paura delle ondate migratorie. L’Italia ne è un esempio. È una reazione giustificata?
C’è tutto un dibattito che si è sviluppato negli ultimi anni sulla demografia nei paesi arabi e africani. Si sono formate delle scuole di demografia, come quella di Cambridge, che affermano che le popolazioni immigrate di matrice musulmana hanno un tasso di crescita demografica esponenziale tale da snaturare l’originalità della popolazione europea. Questo è un problema di fondo relativo all’identità europea. Ed è davvero un problema perché la genesi della nazione è stata basata su una specie di unicità di rapporto fra identità nazionale e identità territoriale. La globalizzazione scardina tutto questo e mette a fuoco l’idea della diversità come motore, come genesi della formazione territoriale. L’Europa non è pronta a questo. L’Europa non è gli Stati Uniti e mostra un’enorme difficoltà a capire quali potrebbero essere i rapporti Nord-Sud. Il risultato è che dopo Schengen si è creata realmente una barriera fra le due sponde del Mediterraneo e il Sud del Mediterraneo è divenuta una sorta di periferia del mondo.
Quando dice che l’Europa non è pronta, pensa ai cittadini o alle istituzioni?
Penso a tutti e due. Nemmeno la società civile è pronta. Io vedo che sugli immigrati – che poi non sono immigrati ma minoranze nazionali dell’Italia – c’è un silenzio totale, sono sotto rappresentati, li vediamo pochissimo negli organi di stampa e della televisione. Quello che vedo è un ripiegamento dell’Europa su se stessa perché l’Europa non sa cosa vuol fare e soprattutto non sa cosa vuol essere. Ed è evidente che se non sai cosa sei e cosa vuoi essere non puoi relazionarti nemmeno con quello che è oggi il mondo emergente: l’Asia, il Sud America e nemmeno con i popoli più vicini. È paradossale, perché se c’è qualcuno che ha avuto dei rapporti storici con la sponda sud del Mediterraneo è proprio l’Europa.
Le difficoltà sono tali che negli ultimi anni moltissimi movimenti xenofobi hanno riscosso successo in tutta Europa. Molti di questi movimenti evidenziano la mancanza di reciprocità tra nord e sud: criticano, cioè, gli immigrati in Europa che pretendono di essere trattati alla pari degli europei, mentre nei loro Paesi di origine gli europei non godono dello stesso trattamento.
Sì, però un immigrato non è mai responsabile delle cose che fa il suo Stato. Mi dispiace, ma sono contrario a questa idea di reciprocità come risposta. Quanti immigrati dissidenti verso le loro società abbiamo in Europa. È un alibi, questo, un alibi per non andare oltre. Per frenare. È ciò che Karl Marx chiamerebbe una falsa coscienza.
Nel suo libro, lei cita il drammaturgo algerino Kateb Yacine: «Se accade, raramente, che una rivoluzione si guardi allo specchio, essa si ritrae orripilata davanti alla propria immagine». Due anni dopo l’inizio delle rivoluzioni arabe, quale bilancio possiamo trarne?
Dei punti interrogativi. Però anche degli aspetti positivi, nel senso che viene smentita l’immagine che ha l’Occidente di un mondo orientale condannato a una sorta di fatalismo storico. Poi è ovvio che le rivoluzioni possono subire anche dei dirottamenti, dei cortocircuiti, però queste rivoluzioni almeno hanno mostrato che esistono anche nel mondo arabo quelle che io chiamo delle «passioni democratiche». Molti sono morti perché ci hanno creduto.