Giornalisti tra le sbarre: per i detenuti della Dozza di Bologna “ne vale la pena”
di Chiara Gagliardi
Un ponte dentro e fuori dal carcere. È questo l’obiettivo di “Ne Vale la Pena”, rivista nata nell’ambito del progetto di volontariato Bandiera Gialla e diretta da Nicola Rabbi. Il settimanale online vede infatti la collaborazione di volontari e carcerati insieme, che, lavorando per un fine comune, trovano una nuova intesa. Abbiamo rivolto alcune domande a Francesca, volontaria a 21 anni nel carcere della Dozza, che ci racconta come, nonostante qualche opposizione, il progetto stia prendendo vita ed occupando i pensieri di chi in carcere ci vive, portando agli occhi della gente una nuova realtà.
- “Ne vale la pena”, un nome quantomeno emblematico per un progetto ambizioso ed insolito. Come è nata l’idea di fondare un giornale gestito e redatto da detenuti? Che effetti ha questo potente mezzo di comunicazione in un mondo di cui ci arrivano tante immagini sfocate, ma del quale non conosciamo a fondo la realtà?
L’idea nasce innanzitutto dalla nostra curiosità e dal nostro desiderio di conoscere un mondo di cui si sente spesso parlare ma di cui di fatto si sa poco. La particolarità di questo laboratorio è però anche un’altra: abbiamo voluto cercare di riportare all’esterno quanto vediamo e conosciamo, cercare di stabilire un ponte tra chi è “dentro” e chi è “fuori” e tentare di restituire un volto a questi “detenuti”, termine generico e insufficiente che utilizziamo per designare una variegata popolazione di circa 1700 abitanti che vive ai margini di Bologna e della società. Paradossalmente, è proprio il mezzo di cui abbiamo deciso di servirci, il giornale, che contribuisce a questa disinformazione sul carcere. Sappiamo del sovraffollamento e dei fatti di cronaca ma ignoriamo cosa significhi concretamente vivere un’esperienza carceraria. Per una volta allora il giornale non sarà uno strumento al servizio del pregiudizio, ma il mezzo con cui i redattori potranno raccontarsi, dare voce alle loro difficoltà e alle loro speranze, aprire un varco.
- Quali sono le tematiche più affrontate dai vostri redattori “interni” alla Dozza? Cosa si può capire leggendo i loro pezzi?
Le tematiche sono le più disparate! Si passa da articoli sulle novità della Dozza (l’azienda, la scuola, il coro), a riflessioni personali, alle rubriche di cucina e alle recensioni di libri. Questa grande varietà nasce dagli stessi detenuti-redattori. Certamente il fil rouge di tutte le pubblicazioni è la loro esperienza carceraria, ma questa viene affrontata da diverse e spesso inaspettate angolazioni, ognuna delle quali riflette la personalità dell’autore. Gaz ad esempio, il redattore-cuoco, si è da subito rifiutato di parlare di politica carceraria e diritto, eppure attraverso le sue ricette riesce a descrivere uno spaccato di vita onesto e spesso molto più pregnante di un “classico” articolo cronachistico sull’ennesima emergenza. Questo dice molto su quanto il termine “detenuto” ne appiattisca la personalità e quanto invece la scrittura abbia il potere di rinvigorirla.
- “Ne vale la pena” è nato nell’ambito di un progetto di volontariato. Come è nato e quali sono le vostre mansioni?
Il laboratorio di giornalismo ha preso vita dall’incontro tra “BandieraGialla”, giornale online di informazione sociale dell’area metropolitana bolognese e l’associazione “Poggeschi per il carcere” che da anni opera dentro e fuori alla Dozza, organizzando laboratori e attività culturali. Ad occuparci concretamente del laboratorio siamo in quattro volontari, tra cui il direttore di Bandiera Gialla, Nicola Rabbi, due giovani giornaliste entrambe under 30, Ilaria Avoni e Valentina Rizzo, ed io, semplice studentessa universitaria. A differenza di quanto avviene normalmente, la redazione riunisce detenuti provenienti da varie sezioni e si ritrova nell’aula pedagogica, dove i detenuti fanno scuola durante l’anno. Con loro ci incontriamo una volta alla settimana e insieme parliamo degli argomenti che vogliamo trattare, discutiamo e correggiamo quanto scritto, commentiamo quanto accaduto di recente. Dopo la riunione noi quattro volontari ci occupiamo di battere i pezzi al computer e pubblicarli su BandieraGialla: non avendo computer a disposizione i redattori non possono vedere il risultato del loro lavoro sul web, per questo di volta in volta stampiamo la pubblicazione e la riportiamo a loro alla successiva riunione, in modo che possano rendersi conto di come appare “da fuori”. Purtroppo il nostro modo di lavorare limita le possibilità di interazione con i lettori di BandieraGialla ma i redattori sono sempre avidi di commenti degli utenti e le risposte, anche se in ritardo, arrivano!
- Il giornale tratta i più disparati argomenti, dagli articoli “caldi” su pena di morte e carcere alle rubriche di cucina. Come si può gestire una tale varietà da dentro la Dozza?
L’organizzazione del nostro lavoro è in realtà molto libera: anche noi volontari siamo partiti con un’idea su ciò che un giornale del carcere dovrebbe trattare, ma già dai primi incontri è stato chiaro che non si sarebbe potuto parlare di carcere così come comunemente lo intendiamo. Troppe sono le persone, le esperienze, le culture per poter appiattire un mondo di questo tipo, con tutte le sue contraddizioni e le sue problematiche. Per cui abbiamo dato “carta bianca” ai redattori, ognuno dei quali può scrivere liberamente. Le regole sono davvero poche: niente sfoghi, invettive, articoli troppo teorici; sì invece a racconti di vita, riflessioni personali, fantasia. Il risultato è un giornale “colorato”, più aderente alle personalità dei redattori che all’immagine comune del detenuto.
- Qual è stata la reazione alla proposta di fondare un giornale?
La risposta dei detenuti è stata davvero molto positiva. Non è necessario spingerli, indurli a scrivere, spesso infatti si presentano già all’appuntamento settimanale con più di un articolo e nuove idee da proporre per i successivi. Il gruppo si è rivelato affiatato e ora che non possono comunicare tra sezione e sezione per via delle vacanze estive e della scuola chiusa chiedono a noi di avere o trasmettere notizie ai compagni. Non solo, cercano il più possibile di coinvolgere altri compagni, intervistandoli o discutendo con loro e la prospettiva è dunque quella di ampliare la redazione. Anche all’esterno comincia a crescere la visibilità: hanno parlato di noi Redattore Sociale, Repubblica.it, Affari Italiani.it, Ristretti Orizzonti. Inutile dire che questo feed back ci ha dato una grande carica e a settembre, terminata la pausa estiva, speriamo di ripartire con rinnovata grinta.
- Il vostro cammino è stato, per così dire, in discesa, oppure avete trovato dei problemi e delle resistenze alla vostra idea? Se sì, secondo voi, a cosa sono dovuti?
È stato un percorso accidentato fin dai primi passi. Certo, è una cosa che si mette in conto quando si ha a che fare con un’istituzione come quella carceraria, in cui spesso devono prevalere logiche di sicurezza, ma per chi, come me, è entrato in carcere per la prima volta, la sua rigidità, anche per questioni che tutti noi considereremmo futili, lascia comunque a bocca aperta. Innanzitutto i permessi per entrare: quest’anno è stato difficilissimo ottenerli e, nonostante le richieste fossero state effettuate da parte di tutti i membri dell’associazione nel dicembre 2012, siamo potuti entrare solamente noi del laboratorio di giornalismo nell’aprile di quest’anno: evidentemente mancava una ferma volontà da parte di chi ha il potere di concederli a promuovere iniziative di volontariato e a far sì che possa avvenire questo incontro tra noi e i detenuti. Il giornale poi è un mezzo davvero potente e questo ha suscitato non poche perplessità e notevoli resistenze. Ulteriori limiti sono dovuti al fatto che i detenuti non provengono da una stessa sezione: ciò crea disagi in termini di tempo e di possibilità di incontro. Ad esempio, da quando è terminata la scuola, non abbiamo più potuto ritrovarci nell’auletta pedagogica. Siamo stati quindi noi volontari a doverci spostare di sezione in sezione con l’aiuto dell’educatore per raccogliere gli articoli, con la conseguenza però che non abbiamo potuto raggiungere tutti e che il tempo da passare insieme si è dimezzato. Gli ostacoli sono continui e ci vuole molta perseveranza e “diplomazia” per superarli.
- Qual è stato l’aspetto del vostro lavoro di squadra che più vi ha colpiti, che non vi aspettavate di trovare?
Certamente l’affiatamento di tutta la redazione. Nel poco tempo che abbiamo avuto a disposizione siamo riusciti a dare corpo ad un progetto ambizioso e la sua riuscita dipende e dipenderà dalla volontà unanime di continuare a raccontare e dal desiderio di migliorarci. Questo ovviamente non può avvenire se non proseguendo nell’intessere relazioni, sempre più oneste e profonde tra noi, volontari e detenuti. Non ci illudiamo certamente che le barriere tra di noi possano essere abbattute così facilmente, ma certamente ne coltiviamo la speranza.